Ieri sera dei nostri amici ci hanno portato a cena a Capodistria, in un piccolo ristorante di cui non mi hanno detto, e non sono riuscita a scoprire, il nome.
Il locale, dall'ingresso piuttosto anonimo, si trova in una zona di case popolari, casermoni eretti ai tempi del socialismo reale, in una casetta nascosta da un po' di piante e dall'illuminazione scarsa.
Si parcheggia un po' dove capita, a noi, nemmeno a farlo apposta è toccato un cassonetto.
Anche l'atrio mantiene un che di anonimo da vecchia trattoria di paese: un bancone da bar, un paio di tavolini ingombri, fotografie alle pareti.
Che ci sia qualcosa di particolare si inzia a capire proprio guardando le fotografie, che ritraggono il padrone e chef del locale con vari monumenti del rock, le più recenti riguardano Robert Plant e Ian Anderson.
Mentre esaminiamo le foto per identificare i vari artisti, arriva proprio lo chef, che, prima di accompagnarci in sala al tavolo per noi riservato, ci mostra, non senza emozione, la pagina del libro degli ospiti del 17 di febbraio, dove campeggia la firma di Eric Clapton, accompagnata dal disegno di una chitarra.
Ovviamente impressionati, entriamo in sala, e lì il locale perde tutto il suo anonimato.
La struttura è ricavata da una veranda in legno, e i tavoli sono pochi, ben distanziati, così ogni gruppo può chiacchierare senza che le conversazioni si sovrappongano, e soprattutto, evitando che a un tavolo ci si facciano gli affari degli occupanti del tavolo vicino.
L'arredamento è semplice, confortevole, curato in modo che non ci sia niente di disarmonico, niente che possa alterare il puro piacere del gusto.
Una signora di una certa età viene a prendere l'ordinazione del vino.
I miei amici scelgono una malvasia istriana che giudicano favolosa, io, che sono astemia, mi accontento della Radenska.
La solita signora ci porta un piattino, che viene chiamato "benvenuto dalla cucina", un crostino tostato su cui è depositata una cucchiaiata di patè di olive, visibilemente fatto in casa, formato da olive verdi, nere, filetto di acciuga e profumo di tartufo nero, con un lievissimo velo di extravergine.
Se il buongiorno si vede dal mattino ...
Facciamo a tempo a finire il crostino che ci si avvicina lo chef, e inizia a recitare il menù. Non posso usare altro termine che recitare.
Ogni piatto viene descritto fino al più minuto degli ingredienti e dei dettagli di preparazione. Di ogni piatto viene detta la provenienza e il grado di freschezza degli ingredienti. Di goni piatto riusciamo a immaginare consistenza, profumo, gusto.
Quando alla fine ci viene chiesto che cosa ordinare si vorrebbe rispondere: tutto!
Io scelgo la granseola. Non è un piatto insolito, ma la buona granseola in realtà è diventata rara, e questa merita. Merita così tanto che mi mangio anche la foglia di lattuga che le fa da letto: è così dolce e fresca che trovo ingiusto trattarla da guarnizione.
Nel frattempo ci hanno portato un cestino di pane, pane fatto in casa ovviamente, dove le spesse fette di pane coi semi, simile a quello austriaco, sono alternate a delle buffe pagnottine sagomate a forma di riccio, con due granelli di pepe come occhietti, e guarnizione di semi di sesamo o di papavero.
Ci diciamo di non esagerare col pane, ma è talmente buono che ne mangiamo assai più del voluto.
I primi sono semplicemente sublimi. Io scelgo dei ravioli con un ripieno di pesce aromatizzato con tartufo nero e conditi son un sugo formato da caviale, uova di orata e uova di riccio di mare, decorati con qualche vongola e una cappasanta.
Il piatto è così delizioso che me ne frego di qualsiasi genere di etichetta e bon ton e faccio abbondantemente scarpetta, ripulendo sia il mio piatto sia quello del prof che ha ordinato lo stesso primo.
Per secondo ci viene proposto un branzino al sale che non è il solito branzino al sale, pure ottimo e così comune lungo tutta la costa della ex Jugoslavia.
Il branzino, selvaggio, è sfilettato, ogni filetto viene deposto su uno strato di fiore di sale proveniente dalle saline di Pirano, coperto con della carta da forno e con altro fiore di sale, il tutto è cotto ai ferri.
Semplicemente esaltante.
Come dolce scelgo un semifreddo a base di menta, cicciolato e profumo di caffè, com una lieve decorazione di caramello. Me lo servono su un piatto di cristallo che al centro ha una alzatina, che scopro essere fatta di ghiaccio, per evitare che il dolce si sciolga troppo in fretta.
Sarebbe facile dire che il rischio non esiste, vista la bontà, e invece non è vero: il sapore è così complesso, pieno di sfumature che si sviluppano man mano che ogni cucchiata si scioglie in bocca, che, dopo i primi due bocconi, lo si mangia così lentamente che effettivamente senza la base ghiacciata potrebbe liquefarsi.
Arriviamo alla fien di questo pasto straordinario con la stessa faccia di un credente che ha avuto una intensa esperienza mistica.
Ovviamente torneremo, oh si, se torneremo, anche perché il costo, pur non essendo bassissimo, non è esagerato, anzi, considerata la qualità di quello che abbiamo mangiato, e le porzioni che sono ben lontane dalla novelle cousine, è decisamente onesto.
E poi magari se siamo fortunati potremmo incontrare Eric Clapton, o chissà chi altro ...
195.9
130/87 mmHg
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