mercoledì 26 agosto 2009

Playlist

Onde evitare di incappare in qualche argomento politico che mi faccia venire la mosca al naso, ho evitato accuratamente la lettura dei giornali di oggi, fatta eccezione per un'intervista all'a.d. di Enel pubblicata dal sole 24 ore, relativa al nucleare e la cui lettura critica, sia nella parte domande sia nella parte risposte poteva ricondurre al vuoto pneumatico.
Detto questo, è venuto il momento di pubblicare la playlist che mi ha accompagnato durante i lunghi tratti in macchina delle mie vacanze, in ordine rigorosamente sparso

Cure - Disintegration
Spinerette - Spinerette
Moby - Wait for me
Maxwell - Black summer' night
The lemonhead - Varshons
U2 - No line on the horizon
Ginuwine - A man's thoughts
Tiny vipers - Life on earth
Camera obscura - French navy
Babybird - Ugly Beautiful
Linkin park - Minutes to midnight
Wilco - Wilco (the album)
Davide van de sfroos - Pica!
Alice in chains - Dirt
Babybird - Double A EP
Radiohead - The best of
Jovanotti - Safari
Fruits bats - The ruminant band
The Mars Volta - Octaedron
Savage Garden - Truly madly completly
Billy boy on poison - Drama junke queen
The killers - Day & age
Mark Knopfler & Emmylou Harris - All the road running

più innumerevoli cd contenenti compilation rock che vivono da sempre in macchina
Buon ascolto!

martedì 25 agosto 2009

C'era una volta

Intendevo dedicare questo post a un argomento ameno, vale a dire la lista dei ristoranti dove ho mangiato in queste vacanze, con indirizzi e relative valutazioni, e la playlist di viaggio, ma ahimè, le vacanze finiscono e sono già un bel ricordo, e la dura realtà di ogni giorni riprende i suoi spazi, a maggior ragione quando uno va al bar a prendere un caffè la mattina e legge sul bugiardino locale, vale a dire il Messaggero Veneto, edizione di Udine, un titolo cosiffatto: "Cattedre, la metà ai prof meridionali". Dato che purtroppo conosco bene le abilità dei titolatori del Messaggero, capacissimi di far dire al titolo il contrario di quello che sostiene l'articolo, attendo che chi sta sfogliando il giornale lo depositi, e me ne approprio.
Questo è l'articolo , che tutto sommato è piuttosto neutro, e spiega semplicemente come mai è così facile dalle nostre parti l'inserimento di insegnanti provenienti da altre regioni, che poi si tratti di regioni o meno del meridione è del tutto ininfluente, è una questione di mero meccanismo. L'articolo che invece è irreperibile nella versione online del bugiardino, e che è assai più grave, è un altro, che è il violento attacco leghista ai prof provenienti dal meridione, e la promessa (direi meglio la minaccia), di creare un meccanismo che porti di fatto all'impossibilità per chi proviene dal sud di insegnare in Friuli.
Ora, e lo dico da persona geneticamente padana, assai più di Bossi, della Gelmini, di Calderoli e di chi per loro, essendo io nata all'ombra del Torrazzo e sulle rive del fiume Eridano, tutto ciò è veramente una stronzata, una idea del tutto imbecille che può essere partorita solo da imbecilli.
Nella mia personale carriera scolastica ho avuto professori meridionali eccelsi (una tra tutte, l'insegnante di matematica delle superiori) e deprecabili, così come professori settentrionalissimi eccelsi (sempre per citarne una tra tutte, la prof di lettere del biennio delle superiori) e altri che sarebbe stato meglio non incontrare sul proprio cammino.
Non credo che la matematica mi sarebbe potuta essere insegnata meglio se la docente avesse parlato con accento lombardo piuttosto che siciliano, nè che sia stato l'accento lombardo a far si che l'insegnamento della prof di lettere abbia prodotto dei buoni risultati sul mio atteggiamento nei confronti delle lettere e sul mio modo di praticarle.
Dopo di che credo sia necessario dire che l'insegnamento, qualsiasi insegnamento, deve essere impartito in lingua italiana, perché è demente insegnare in uno dei qualsiasi dialetti/lingue di questo paese, per non dire del fatto che tutti questi salvatori delle piccole patrie secondo me della cultura che vogliono portare avanti non sanno nulla.
Però questo post si intitola C'era una volta, che è la formula con cui inizia una storia, ed è una storia che voglio raccontare.
C'era una volta un giovane laureato in lingue, laureato al prestigioso Istituto Orientale di Napoli, culla della linguistica in Italia assieme a Ca' Foscari di Venezia.
Subito dopo la laurea il giovane si rese conto che a Napoli la sua vita sarebbe stata troppo dura, così prese un treno di emigranti e arrivò a Udine, dove, nel corso di una affollata giornata al Marinelli, gli fu assegnata, non senza un po' di dolo (ma si, non si preoccupi, il posto è ben collegato con la città, e non era vero, non lo è ora figuriamoci a quei tempi), la sede di Ampezzo.
Chi sa di Carnia sa di che parlo. Comunque il giovane neoprofessore andò ad Ampezzo, e ci si trovò bene, e gli ampezzani si trovarono bene con lui, al punto che in pochi mesi era un membro attivo della vita locale, e uno dei fondatori di una associazione culturale locale.
Insegnare ad Ampezzo significava anche avere cura dei giovani saurani, abitanti di Sauris, che allora non era ancora la località turistica un po' esclusiva che è oggi, e che erano emarginati dato che non parlavano friulano, ma una variante del 1200 del tedesco. Così il giovane prof andò ad insegnare tedesco moderno ai saurani. Dopo sei anni in quelle che erano diventate le sue montagne, ragioni di famiglia lo portarono a Udine, eppure la Carnia gli rimase nel cuore finché visse.
A Udine continuò a insegnare, in una maniera tale per cui molti dei suoi allievi, una volta entrati nel mondo del lavoro, gli mandavano mail ringraziandolo per la qualità del suo insegnamento, diventò formatore di insegnanti, pioniere della multimedialità nella didattica, ricercatore, eccetera eccetera.
Da un anno questo professore, che pure era ancora giovane e attivo, non c'è più, eppure il suo nome verrà ricordato, a differenza dei nomi degli imbecilli leghisti che firmano certe proposte di legge.
Che vadano a chiedere ad Ampezzo, a Sauris, a San Giorgio di Nogaro, a Feletto, all'Università di Udine, al Goethe Institut di Trieste, Napoli e Monaco chi era Alfredo Colucci, professore meridionale.


lunedì 24 agosto 2009

The day after

Buffa cosa, ho dormito nel mio lettone dopo due settimane, e l'ho quasi trovato strano, forse troppo comodo. O, semplicemente, dieci ore passate alla guida hanno fatto sì che i muscoli fossero molto contratti. In ogni caso mi sono svegliata un paio di volte durante la notte, e per cercare di prendere sonno ho meditato su questo mio lungo viaggio, strano a detta di molti.
Tutti coloro a cui ho detto di non aver utilizzato l'autostrada mi hanno guardato straniti, o, se al telefono, espresso la loro meraviglia.
Beh, devo dire che mi sono divertita moltissimo, e che sono convinta di avere viaggiato in tempi paragonabili a quelli dell'autostrada, ma con un confort infinitamente maggiore.
Persino ieri, nonostante le moltissime ore di guida, da sola e con la sola compagnia dei miei cd, non ho avuto alcun colpo di sonno, nessuno dei cali di attenzione che affliggono di solito i viaggiatori, e questo sicuramente è dovuto alla varietà dei paesaggi.
Devo dire che a volercisi mettere, la cartellonistica stradale costituisce un ottimo argomento di osservazione e studio, anzi, mi chiedo se un qualche laureando in scienza delle comunicazioni abbia mai pensato di scrivere una tesi su questo vario e, per certi versi esilarante, argomento.
No sto a parlare dei vari cartelloni ammiccanti e utilizzanti seminudi femminili per pubblicizzare officine meccaniche, o donne col pancione per le finanziarie, citerò invece due meraviglie del possibile reperite dalle parti di Pordenone.
1) La vita è di dio - l'aborto è contro dio - il rosario salverà la famiglia
Ora, la prima parte dell'affermazione mi trova neutra, io personalmente sono atea e ritengo che la vita sia mia e non di dio, ma se qualcuno preferisce delegare, è un problema suo. La seconda parte è un tantino più problematica, visto che non ho mai trovato da nessuna parte nei libri sacri, che pure ho letto con attenzione, alcun riferimento al fatto che l'aborto sia contro dio più che ammazzare altri uomini con la guerra, tanto per fare un esempio. La terza parte è un tantino spiazzante, Innanzi tutto non riesco a capire che cosa c'entri con le prime due, ma questo è un problema squisitamente semantico, quello che proprio non capisco è come possa fare il rosario a salvare la famiglia. Forse perché la recitazione del rosario da parte di tutti i membri della famiglia li tiene uniti? Beh, lo fa anche la televisione. E la recitazione del rosario ha più cose in comune con la televisione di quanto si pensi, dato che, e lo dico per esperienza dato che a suo tempo mi capito di essere costretta a recitarlo, il far andare la bocca in formule vuote permette di lasciare che la testa vada dove le pare. Evito ulteriori considerazioni su questo magnifico cartello e passo al
2) Cartello con fotografia di figone maschio vestito di nero, sovrastata dalla scritta: Sensitivo Angelologo. Angelologo? Che è, un parente dello speleologo? Il logo deriva da logo, scienza? Esperto in scienza degli angeli? Ma una volta si parlava del sesso degli angeli, ed era modo per dire che si discuteva sul nulla!
Insomma che si capisce benissimo come il viaggiare su strade statali abbia i suoi vantaggi, anche in termine di pensiero: un cartello come quelli di cui sopra fornisce materiale da meditazione per diversi km, al punto che invece che calcolare il consumo di benzina per 100 km, si potrebbe tradurre il viaggio in cartelli da meditazione per 100 km.
In ogni caso, alea iacta est, quando possibile eviterò l'autostrada anche per il futuro.

domenica 23 agosto 2009

Il lato lungo del triangolo

E' venuto il momento di ripartire, di tracciare la rotta verso nord est che mi riporterà a casa, il lato lungo di questo triangolo acutangolo che ho percorso durante le mie vacanze.
Prendo l'Aurelia in direzione di Genova, è presto e c'è poco traffico, arrivo in città e giro a sinistra, verso l'entroterra e i Giovi. La strada inizia a salire a tornanti, fino al passo che porta in quella che a parer mio è la vallata più brutta d'Italia, vale a dire la Valscrivia.
Mi scusino gli abitanti della valle, ma anche oggi, nonostante il fatto di percorrerrla fuori dal tunnel obbligato dell'autostrada, non mi ha dato sufficienti argomenti per rivalurarla, complice forse il tempo brutto, la foschia, il cielo coperto. La valle è stretta, nell'esiguo fondo scorrono il fiume, la statale, l'autostrada, la ferrovia, il territorio è quasi inesistente, e i paesi, che pure hanno costruzioni graziose, sembrano provvisori, un plastico ferroviario.
Il traffico è scarso, e quando arriva il classico momento dell'idiota mi coglie del tutto impreparata.
Siamo a Serravalle, e a causa di un incrocio un po' strampalato c'è una piccolissima colonna. La vedo e rallento, e in questo frangente do' una precedenza che avrei anche potuto fare a meno di dare, ma d'altra parte, fermarsi due metri prima o due metri dopo che cosa cambia?
Non la pensa così il tipo in Ferrari che sta dietro di me, che mi strombazza e inizia a farmi gestacci. Dato che continuiamo ad essere in colonna, e dato che ogni volta che freno questo si braccia facendo sceneggiate napoletane degne di miglior causa, decido di esercitare il massimo della pressione sui suoi fragili nervi, a me d'altra parte non costa nulla. Così lascio che quelli prima di me partano, e aspetto finché il tizio non diventa paonazzo, poi mi muovo in prima, freno a metà percorso, riparto. So che più avanti c'è una rotonda, alla quale io dovrò andare a sinistra, non so perché, ma immagino che il tizio dovrà andare a destra. Così arriviamo alla rotonda al velocità da sciuretta sulla macchinina senza targa, esercito la prudenza sul dare precedenza in maniera plateale, mentre il tipo strombazza, ed è inutile dire che mi metto in modo che non mi possa sgusciare a destra, poi, mentre parto con la massima calma, innalzo, il più visibile possibile il dito medio della mano destra, a questo punto svolto e do' gas. Vero che io ho una Nissan e lui una Ferrari, ma non è il mezzo che fa la guida ...
Continuo il mio viaggio nell'oltrepò pavese, arrivo vicino a Piacenza, passo il Po a Caorso, mentre già vedo quell'ago di bussola che è il Torrazzo davanti a me. Non mi lascio tentare dalla mia città natale, la passo e vado verso Mantova.
Dalle parti di Piadena mi coglie la fame, moltissimi locali però sono chiusi per ferie, alla fine trovo un agriturismo, e devo dire che il culo del viaggiatore mi ha assistito. Mangio benissimo, un paio di pezzetti di erbazzone come antipasto, ravioli con ricotta ed erbette, e, al posto del secondo, un piatto di deliziosi affettati nostrani con una insalata fresca.
Riparto corroborata da un buon caffè e mi dirigo in direzione di Verona, poi Vicenza, Treviso, e poi, improvvisamente, vedo la fine del viaggio.
Ho incontrato innumerevoli città del vino, così tante che mi viene da dire che l'Italia dovrebbe scrivere "Nazione del vino" su appositi cartelli da affigere ai confini nazionali, con l'eneco delle città del vino complete di distanze chilometriche.
Arrivo a casa dopo dieci ore di viaggio, a cui togliere due ore tra pranzo e soste tecniche, sono 550 km, e devo dire che sono veramente soddisfatta, ovviamente ci sono altre cose da dire e raccontare, ma ora sono stanca, provvederò domani.

sabato 22 agosto 2009

Il business delle streghe

Come deciso, parto piuttosto presto per andare a visitare Triora, il paese delle streghe. Mi sono documentata un pochino, e ho scoperto che in questo paesetto dell'entroterra ligure, oltre 200 donne furono accusate di stregoneria, numero poi ridotto dal fatto che vennero accusate le nobili così come le popolane, e questo ovviamente non si fa, le popolane possono essre streghe, le nobili giammai.
Mi sono anche studiata il percorso con il solito viamichelin, sempre per evitare l'autostrata: Aurelia fino ad Albenga, e poi strade provinciali varie.
Data l'ora mattutina, e il fatto che è sabato, c'è pochissimo traffico. Supero Albisola Mare, Savona, e via via tutti i vari paesi del ponente ligure.
Devo dire che non c'è paragone tra il levante e il ponente, e il saldo positivo è tutto a favore di quest'ulttimo. I paesi sono più ordinati, più ariosi, più attraenti, non ho mai visto in ponente un bailamme come quello in cui sono incappata a Rapallo, cittadina che mi ha fatto venire tentazioni da delenda Cartago.
Mi rendo conto, attraversandoli uno dopo l'altro, che i paesi ponentini sono praticamente tutti dotati di certificazione ambientale. Ok, benissimo, però c'è un però: in nessuno di questi comuni si fa una raccolta differenziata spinta, ci sono dappertutto i cassonetti, e in gran parte traboccano, che ne pensano i certificatori di questo piccolo particolare?
So benissimo che può essere complicato mettere in piedi un sistema di raccolta differenziata porta a porta in località che vedono la propria popolazione mutare a fisarmonica tra quella invernale e quella estiva, ma sono convinta che una soluzione migliore dei cassonetti sia possibile trovarla.
Intanto arrivo a Pietra Ligure, paese che nella mia memoria pragono ai lager nazisti uniti ai gulag sovietici. Ovviamente Pietra, di per se stessa, non ha alcuna colpa, il fatto è che da piccola mi ci mandavano in colonia, e ho dei ricordi terrificanti. Onde non si pensi che sono i ricordi di una bimba viziata, dirò che la colonia dove venivo mandata, dopo aver subito una ispezione provocata dalle mie continue lamentele con i miei genitori, che sapevano che non sono una che si lamenta facilmente, venne chiusa, e noi poveretti rimandati a casa prima della fine naturale della pena.
Crescendo ho rivalutato Pietra Ligure, che però continuo a non amare, forse anche per via della ferrovia, che lì scorre ancora tra le case e le spiagge.
Arrivata ad Albenga mi addentro nell'entroterra ligure, e in breve inizio a salire su una strada tutta curve, che ricorda di essere una provinciale solo ed esclusivamente per via dei cartelli chilometrici. La strada è immersa nel bosco, e ha a tratti luci di acquario, mentre in altri ha un buio da caverna primordiale che i fari della macchina faticano a forare.
Ho lasciato da tempo l'ultimo abitato, e inizio a sentirmi un po' strana: sono partita sull'onda dell'entusiasmo senza colazione, e mi rendo conto di avere un imponente calo di zuccheri. La fine della strada non si vede, e sto seriamente pensando di tornare indietro quando finalmente vedo l'ultimo incrocio, sono praticamente arrivata.
Parcheggio, bevo un caffè e mangio un pasticcino, e girello per i vicoli medievali, molto ben restaurati. Mi rifiuto di visitare il museo della stregoneria e quello etnografico, non ho voglia di folclore, voglio semplicemente calcare queste pietre già calcate da tante donne che, per il semplice fatto di dare adito a qualche dubbio di indipendenza mentale, hanno sofferto tanto.
Mi immedesimo con loro, anche perché sono tante le persone che mi conoscono e che spesso dicono che ai quei tempi io sarei stata bruciata tra le prime, cosa di cui francamente mi vanto.
Le streghe sono ovunque, anche perché in questo piccolo paese, piuttosto isolato, i cognomi familiari sono ancora quelli di una volta, e ciascuno può dire di aver avuto una strega nel proprio albere genealogico. Non so se essere felice del fatto che di queste donne si conservi la memoria, oppure in qualche modo sentirmi indignata perché lo si fa tramite un business spinto che riguarda l'artigianato, la cucina, tutto insomma.
In ogni caso decido di non pranzare a Triora, ma tornare indietro lungo la strada, nell'ultimo paese prima del bivio, dove ho visto un ristorante.
In realtà di tratta di una trattoria familiare, e la cucina, anche se genuina, non è eccelsa: si potrebbe fare di più con gli ottimi ingredienti a disposizione. In ogni cado mangio dei discreti pansotti con radicchio e noci e un piatto di affettato, il tutto parlando di libri con la proprietaria e cuoca, il che tutto sommato non mi dispiace.
Torno a valle in tempo per incontrare Nadya, alias paperina, vale a dire un'amica anobiiana con cui abbiamo un fitto scambio di messaggi, ma che non avevo mai visto di persona.
Prendiamo un aperitivo in porto a Savona, parlando di noi, dei nostri guai, del nostro amore per la lettura. Abbiamo solo un'ora di tempo, ma la trascorriamo piacevolmente e ci lasciamo col desiderio di rivederci presto.
Torno ad Albisola, mi faccio una doccia e vado a cena alla Meridiana, locale chic della passeggiata a mare, caro come il fuoco ma è l'ultima sera e pazienza, il guazzetto di moscardini è un po' troppo salato, il fritto misto buono ma non eccezionale, in compenso il personale, esclusivamente maschile, è una gran bella vista: camerieri giovani e dal belloccio al veramente bello, vestiti di nero, veloci e sorridenti, pronti a cogliere la minima occhiata da parte del cliente, un maitre giovanissimo e molto bello, vestito di bianco, e il proprietario in camicia azzurra, onnipresente, sorridentissimo e assai piacente. Dato che l'occhio vuole la sua parte, posso dire che la serata è finita bene.

venerdì 21 agosto 2009

Parola d'ordine: ordine!

Il mio resoconto di ieri è stato colpevolmente sbrigativo e lacunoso, a mia discolpa posso solo dire che quando l'ho redatto ero molto stanca, e così non ho affrontato un argomento di cui mi aveva accennato l'amico con cui ho cenato ieri sera. D'altra parte altrimenti il resoconto di oggi sarebbe inesistente, dato che ho trascorso la giornata un po' oziando in spiaggia, un po' dormendo e un po' passeggiando per i vicoli di Albisola.
Veniamo al dunque. Le ultime elezioni a sindaco hanno visto l'affermazione, nel comune di Albisola, del sen. Orsi, gentiluomo di chiara fama e con un teutonico senso dell'ordine.
Verso l'augusto personaggio si sono immediatamente levate le accorate proteste dei residenti dei vecchi vicoli del paese, quelli che dall'Aurelia si inoltrano verso la passeggiata a mare. Noi non possiamo dormire, dicono i residenti, qui c'è casino a qualsiasi ora del giorno e della notte, e soprattutto in estate, con le finestre aperte per via del caldo, tutti questi giovinastri che gozzovigliano sotto le nostre finestre, e chissà se si limitano a gozzovigliare, che poi da qui possono andare in spiaggia, sia mai che la luna, le stelle e l'andare e venire del mare gli ispirino atti contro la pubblica morale.
Detto fatto, il sen. Orsi emette un'ordinanza: il venerdì e il sabato notte, dalle tre alle sei e qualcosa del mattino, è impedita qualsiasi cosa in quella zona di cui sopra, compreso respirare. E' rigorosamente permesso solo il dormire, e solo se si è residenti.
E se siamo affittuari per le vacanze? Domanda un sacco di gente che si incontra nei vicoli, e che teme di non poter rientrare nel proprio alloggio se andrà in altro comune ad assistere a qualcuno dei numerosi spettacoli estivi, che si possono concludere anche piuttosto tardi, per non dire di chi pensa di passare la nottata a Montecarlo, che a questo punto dovrà rientrare solo a mattino inoltrato.
E io cosa faccio col mio forno? Dice il panettiere abituato a vedere scomparire la sua prima infornata di focaccia proprio alle tre del mattino, a temperare gli effetti dell'alcool che qualcuno a bevuto nelle discoteche del ponente.
Ma che senso ha rendere inaccessibile una zona della città? Chiede il prevosto?
Già, che senso ha mi chiedo io? Albisola è una città di mare a vocazione fortemente turistica, il che significa che la maggior parte degli esercizi commerciali del centro trae il suo guadagno in un periodo di circa tre mesi all'anno, e per farlo tiene aperto quasi 24 ore su 24, anche perché i turisti di giorno sono in catalessi sulla spiaggia, e cominciano ad andare un po' in giro dall'ora dell'aperitivo in avanti. La movida, come viene chiamata con un termine mutuato dallo spagnolo e che a me ricorda una tintura per capelli di uso domiciliare, non è una pessima abitudine insorta da quando si è importato il termine. Esiste da sempre, in quasiasi luogo di mare, basterebbe al senatore chiedere a qualche grande vecchio del suo partito, di quelli che da giovani andavano a trascorrere le vacanze al Forte dei Marmi.
Albisola non è il Forte? Indubbiamente no, ma il Forte è diventato tale perché ha avuto la spregiudicatezza di accogliere e favorire le stravaganze degli allora giovani vitelloni, molti dei quali oggi sono tra quelli che a pacificare la propria vecchiaia non fanno altro che pretendere restrizioni per coloro che vecchi non sono. D'altra parte ha ben detto de Andrè, si sa che la gente da buoni consigli se non può più dare cattivi esempi.
Per quanto mi riguarda, nonostante il mio ormai prossimo mezzo secolo, che fa si che mi venga sonno in orario da galline e non ricordi il nome del posto dove ho deciso di andare domani se non leggendolo sulla Moleskine dove l'ho appuntato, ricordo benissimo i pellegrinaggi fatti alle cinque del mattino per cercare un laboratorio di pasticceria che sfornasse bomboloni freschi, e mi chiedo perché, se io non mangio più bomboloni, debba prendermi la briga di impedirlo anche agli altri. E se pesa troppo l'astensione da simili piaceri, beh, basta tenere un alka seltzer a disposizione.
Last but not least, della pregevole ordinanza sono affisse copie in ogni e qualsivoglia angolo della piccola cittadina, così che, anche non volendo, l'ho letta e riletta più volte, e non mi suona bene, nella forma, che del contenuto ho già detto.
Si da il caso che per uno dei tanti casi della via abbia passato alcuni anni a scrivere ordinanze, e se quello seminato in giro è il testo ufficiale e completo, beh, è uno di quei testi che non avei mai fatto firmare al sindaco che ho servito, perché puzza di illegittimità. Ho chiesto all'amico residente di procurarmi il testo depositato in comune, ci voglio studiar sopra.
Dicevo all'inizio che oggi non ho fatto praticamente nulla, salvo rosolarmi e dormicchiare, e mangiare ovviamente. Sto facendomi scorpacciate di spaghetti con … a pranzo, nel ristorangte dell'albergo, che è pregevole, soprattutto perché non cincischia i condimenti, che risultano leggeri, spaghetti con scampetti e calamari, a cena invece spaghetti con polpo e melanzane, dopo i quali mi sono concessa un po' di farinata di ceci.
Domani, grazie al suggerimento di un gentile tassista conosciuto per caso, andrò a visitare Triora, il paese delle streghe. Sono un centinaio di km da qui, nell'entroterra di Imperia, ma d'altra parte non amo così tanto la spiaggia da rosolarmici per due giorni di fila, e poi ho voglia di assaggiare un altro tipo di cucina.

P.S. Giusto per avere una piccola idea su chi è il sen. Franco Orsi leggete qui

Mare a sinistra

E' venuto il momento di lasciare Sarzana e raggiungere la mia ultima meta. I chilometri non sono tantissimi, ma so che il percorso richiederà tempo e pazienza. Tiro fuori la stampata di Viamichelin, e mi accorgo che, nonostante le mie richieste, il sito mi indirizza a prendere l'autostrata, per cui decido di fare di testa mia, d'altra parte si tratta di tenere sempre il mare a sinistra per percorrere non solo la riviera ligure, ma tutto il perimetro d'Europa.
Inizio seguendo le indicazioni per La Spezia, e da lì prendo la SP1 in direzione di Genova. La strada si inerpica sulle montagne liguri, ed è facile dimenticare che siamo in Liguria, perché l'aria che investe la mano fuori dal finestrino è fredda, e la vegetazione è quella che si può trovare in qualsiasi zona montuosa. Però, man mano che ci si alza, ricompare la flora marittima, sotto forma di pini, e il respiro caldo che viene dal mare, non più sbarrato dal primo e più basso contrafforte montuoso, arriva intatto fino al crinale.
Mi inerpico sul passo del Bracco, da un po' di km ho fame, dato che sono partita con un semplice caffè come colazione, ma nei paesi che ho attraversato non ho trovato nulla di interessante.
Cercavo una panetteria, una focacceria, qualcosa di tipico insomma, e invece ho visto solo delle pizzerie, chiuse a causa dell'ora, e dei bar che non promettevano nulla di buono.
Poco prima del passo, all'altezza della discesa per Deiva Marina, incrocio un piccolo albergo a lato della strada, che è così incongruo da costringermi a fermarmi.
Scendo dalla macchina e vengo chiamata da due donne, a bordo della macchina con targa svizzera che avevo davanti fino a poco prima, che mi chiedono indicazioni per Sestri Levante. Gli dico che se vogliono divertirsi non devono fare altro che continuare la strada su cui sono, prima o poi ci arriverà, ma loro sono stanche di curve, per cui le indirizzo verso Deiva, avvertendole però che lungo il mare troveranno un traffico allucinante.
Nel bar del piccolo albergo prendo un caffè e un biscotto, una specie di savoiardo tondo e schiacciato, ricoperto di zucchero a velo, ha l'aria leggera, e infatti le sue tracce spariranno dal mio stomaco in tempi rapidissimi.
Subito dopo il passo mi ritrovo protagonista di una dimostrazione del principio secondo cui una colonna viaggia alla velocità del più lento dei suoi membri. Sto scendendo in quarta, veloce ma non troppo secondo me, quando mi trovo davanti una multipla e devo scalare in terza, di sorpassare non se ne parla, e poi, più avanti ancora, incrociamo un ducato, e si passa alla seconda, e si continuerà così fino a quando ci si fermerà del tutto, ingabbiati nella colonna di auto in ingresso in Sestri Levante.
La strada passa per Rapallo, che è un unico, mostruoso ingorgo. Già il levante ligure non mi piace, ma mi chiedo che cosa venga a fare la gente qui, dove il puzzo di idrocarburi e di smog è peggiore di quello di Milano, per non dire che il traffico fa sembrare roba per dilettanti le brutture viste ai Castelli Romani.
Riesco ad uscire da Rapallo, di nuovo la strada potrebbe essere sgombra se non fosse per un incapace, vale a dire uno che non è capace di sorpassare le biciclette. Ci si avvicina frenando, fino a portarsi alla loro stessa velocità, poi inizia a sorpassarle quanto più lentamente possibile, massimizzando così il pericolo per il ciclista e il fastidio per chi sta dietro e per chi viene nell'altro senso. Inutile dire che non me ne posso liberare, e mi resterà davanti per quasi venti km.
Finalmente arrivo a Genova, la percorro tutta semplicemente seguendo il principio del mare a sinistra, percorrendo la strada sopraelevata che fornisce una incredibile panoramica dei palazzi prospicienti il golfo, per poi sfociare a Sanpierdarena, in una colonna inenarrabile che arriverà fino ad oltre Pegli. Ho di nuovo fame, ma non trovo dove fermarmi, le poche trattorie aperte sono prive di parcheggio, e, ad essere sinceri, non c'è nulla di veramente invitante.
A Varazze decido che ormai arriverò ad Albisola, dove ho prenotato l'albergo, che so che ha anche un ristorante, e così faccio. Ci metto un'ora a trovare parcheggio, ma alla fine si libera un posto proprio sotto l'albergo. Scarico la macchina, mi rinfresco e scendo in sala, e mi premio con un piatto di spaghetti ai frutti di mare, decisamente ben fatti, poi vado a riposarmi.
Per cena ho un appuntamento con un carissimo amico che non vedo da tanti anni. Il tempo trascorso è stato clemente, a parte i capelli bianchi nessuno direbbe che il robusto giovanotto con cui prendo un aperitivo ha 81 anni! Parliamo dei tempi passati e delle innumerevoli avventure che abbiamo vissuto insieme negli anni di lavoro in comune, di amici e conoscenti, di tic e di scenette, ridendo fino alle lacrime mentre mangiamo del pesce freschissimo preparato alla perfezione, per quanto mi riguarda una delle migliori fritture di tutti i tempi.
Ci separiamo a mezzanotte, ancora ridendo. Domani dedicherò la mia giornata al rosolamento in spiaggia, in serata ho un appuntamento con un'altra amica, che ancora non conosco di persona, ma con cui so di avere in comune l'enorme passione per i libri.

mercoledì 19 agosto 2009

I fichi di Luna

Come sospettavo, ho qualche problema di sonno dovuto alla statale della Cisa, che passa davanti all'albergo. Mi sveglio un paio di volte durante la notte a causa di camion, e definitivamente alle sei, quando il traffico si intensifica. Mi va anche bene, dato che ho deciso di uscire presto per visitare i resti di Luni, l'antica Luna di epoca romanica, prima che il caldo diventi insopportabile.
Faccio la mia ginnastica, la doccia, prendo il caffè, e vado.
L'area archeologica è segnalata, anche se non benissimo, e dovrebbe trovarsi a circa 7 km da Sarzana. Imbocco la strada, che passa da Ameglia, dove elevo una muta devozione a Paracucchi, Locanda dell'Angelo, vale a dire uno dei migliori ristoranti Italiani.
Subito dopo la locanda c'è un campo di erbaggi dove si sta facendo il raccolto, qualcosa nei contadini mi attira, e infatti sono neri. Non marocchini o altro, proprio neri, sembrano presi di peso da una piantagione di cotone del Sud degli Stati Uniti ai tempi della guerra di secessione, e mi vien da pensare ai nostri cari celodurleghisti, che dicono che questa gente dovrebbe essere buttata fuori per lasciare il lavoro agli italiani. Peccato che abbia come l'impressione che sotto questo sole, con la paga da fame che sicuramente gli viene pagata, nessun italiano avrebbe la minima voglia di scambiare la propria disoccupazione con il lavoro dei negri, ma forse bisognerebbe mettere Bossi e soci a raccogliere verdure in questo campo dove alle otto del mattino il sole è già a picco per vedere se gli entra un qualcosina nella zucca.
Dopo un paio di errori dovuti a cartelli sfuggenti, arrivo nel parcheggio dell'area archeologica. Imbocco il vialetto e arrivo al museo archeologico. Sono lì che leggo cartelli quando un tizio sbuca fuori tutto preoccupato e mi dice che il museo apre alle otto e mezza. Gli dico che aspetto.
Quando il mio orologio fa le otto e mezza spingo la porta, che è aperta, e faccio il biglietto alla biglietteria automatica, costa solo due euro. In quel mentre torna il tizio, sempre preoccupato, e ribadisce il concetto che si apre alle otto e mezza. Gli faccio vedere il biglietto, su cui campeggia stampato un 8,31, tira un sospiro di sollievo, mi da uno stampato quasi illeggibile, e mi lascia al mio destino per tornare a leggere il giornale, dopo avermi riferito che la visita all'anfiteatro si può fare dopo le 10.30. Io per quell'ora ho altri programmi, per cui rispondo che mi accontenterò di visitare i resti della città, e mi metto in movimento.
La prima parte del museo, dedicata alle sculture e all'arte religiosa, è piuttosto interessante e ben fatta, anche se alcune descrizioni destano la mia perplessità, per esempio la minuziosa descrizione della colorazione di un frontone di tempio in terracotta, che è li esposto e che non mostra alcun colore residuo. Immagino che gli studiosi abbiano accertato la natura e distribuzione dei colori con qualcosa di più efficiente dell'occhio umano.
Esco dal museo, e percorro le vie della città romana, seguendo il percorso predisposto e leggendo religiosamente, e faticosamente dato che sono un pochettino sbiaditi, i cartelli disseminati sul percorso. Continuo ad essere l'unica visitatrice di Luni, che vabbè che a un certo punto della sua storia, o meglio della sua catastrofica fine, fu chiamata città maledetta, ma mi pare che il damnatio memoriae la perseguiti ancora oggi.
Seguendo il percorso arrivo al grande tempio, che oltre al cartello descrittivo è dotato di una casetta adibita ad area museale, casetta che, ahimè, è sbarrata e lucchettata, così come saranno sbarrate e lucchettate tutte le altre aree museali che incontrerò lungo il percorso. Dirò di più: il lastricato moderno che circonda la Domus settentrionale è così invaso dalle erbacce che mi viene il sospetto che nessuno si aggiri da quelle parti da molto molto tempo.
In ogni caso la città non è piccolissima, e io sono solo con un caffè, e mi viene fame, ma vedo un provvidenziale fico, che ha le sue radici in un pezzo di muro romano, e mi fornisce sette od otto frutti maturi al punto giusto per la mia colazione. I fichi sono piante incredibili, crescono ovunque e hanno una produzione di frutti abbondantissima, frutti buoni, che costituiscono un piatto fresco, completo ed equilibrato, dovrebbero essere piantati di proposito un po' dappertutto, in modo da fornire una specie di pan di via disponibile a tutti.
Ovviamente questa pianta non sta qui dai tempi della Luna romana, ma il fatto che sbuchi dalle antiche mura mi da quasi l'impressione di mangiare un pezzo di storia, e che, venendo via dall'ombra dell'albero, debba incontrare un uomo in toga, o qualcosa del genere.
Invece incappo in una custode, che, avendomi visto improvvisamente sparire dal sentiero e non avendo collegato la mia sparizione con la pianta di fico, viene a cercarmi pensando che sia senza biglietto. Le mostro il biglietto, e le spiego dell'attacco di fame. Ride e mi suggerisce di provare anche i frutti di una enorme pianta che sta al centro di un prato che non è altro che una villa non ancora dissotterrata, dice che sono più piccoli, ma molto più dolci dei frutti della pianta che ho degustato ora. Prometto che farò l'assaggio, e lo faccio, effettivamente i piccoli fichi sono dolcissimi, forse troppo per i miei gusti.
Finisco il mio giro, torno alla macchina e vado a prendere un caffè in piazza a Sarzana, prima di affrontare una piccola gita in lunigiana.
Come Luni è sul mare, la lunigiana è montagna, con il suo verde, i suoi tornanti, e la sua cucina di entroterra. Ho deciso di pranzare ad Aulla, e prima di arrivare lì incontro un paesetto che si chiama Stadano Bonaparte, e mostra un cartello in cui pomposamente si dice che il paesetto sarebbe quello originario della famiglia di Napoleone I. Ma non era corso, mi domando io? Mah, si vede che i paesi origine di Napoleone sono come i letti in cui ha dormito, infiniti.
Dopo un po' di girovagare, raggiungo il ristorante, che si chiama Minigolf, nome solo apparentemente incongruo, e dovuto al fatto il il giardino prospiciente al locale è stato trasformato in un campo per il simpatico gioco.
Ordino piatti tipici della lunigiana per cui questo posto è famoso: un piatto misto di salumi, accompagnato da stracchino e gorgonzola dolce da spalmare sugli sgabelli, vale a dire minuscole focaccine romboidali che vengono cotte su speciali ferri e servite caldissime, in modo che i formaggi, il lardo e la pancetta letteralmente si squaglino, e poi testaroli al pesto, cioè pezzi di farinata che vengono bolliti come pasta e conditi. Il locale è specializzato anche in carne alla griglia, ma passo, quello che mi hanno servito non solo è sufficiente, ma anche decisamente abbondante.
Un pranzo così richiede un riposino, e infatti torno in albergo e dormo un paio di ore, poi vado di nuovo a Sarzana per un ultimo giro alla mostra dell'antiquariato.
Sono appena arrivata in piazza che il caldo allucinante si sfoga in un temporale, cosa che immagino riempia di felicità gli antiquari. Mi rifugio in un piccolo negozio, assieme a due tizie abbigliate in modo stravagante. Una ha una tunica bianca ricamata, lunga fino ai piedi, ed evidentemente costituita da due tende cucite, e un trucco anni '50, l'altra, un po' più vecchia, ha una tunica lunga fino ai piedi e leopardata, è pettinata e truccata come Liz Taylor in età già avanzata, e porta alle orecchie due enormi orecchini vintage che le allungano smisuratamente i lobi.
Dato che siamo lì tutte e tre e non sappiamo per quanto, ci scambiamo qualche banalità, con l'intervento del giovane proprietario del negozio, che a un certo punto, guardando il nostro abbigliamento, arguisce che non siamo insieme. Effettivamente io, coi miei capelli cortissimi, gli orecchini sobri anche se antichi, i pantaloni di rasatello marrone e la maglietta turchese sto molto evidentemente su un pianeta diverso. Ridendo dico al giovane “Tre donne intorno al cor mi son venute ...” mi guarda stranito, ripeto il verso, mi riguarda stranito, al che gli spiego che cosa è e di chi è, e lui replica che non si interessa di queste cose … mah.
Per fortuna smette di piovere, e riesco a muovermi di nuovo, continuando il mio giro, e scopro una bancarella che ieri non avevo visto e che vende LP. Trovo un disco del Banco che non ho, e decido di aggiungerlo alla mia piccola collezione, dicendomi che prima o poi dovrò portare su il giradischi dalla cantina.
Nonostante il pisolino, il pranzo è vivo e lotta insieme a me, così decido di non cenare e accontentarmi dell'aperitivo, che vado a prendere in piazza, ottimo posto per monitorare il passaggio.
Così, sulla base di una statistica che compilo a memoria, scopro che lo stile più usato dalle donne e fanciulle, bambine comprese, che frequentano Sarzana è uno stile che definirei “Venere di Botticelli”. Che se lo possano permettere o no, per età, taglia e lineamenti, la maggior parte delle donne indossano abitini diafani che suggeriscono la nudità della dea, e capelli biondo dorati lunghi e inanellati. Devo dire che è una specie di shok rendersi conto che simili abbigliamento e capigliatura, una volta vicini, appartengono a una persona che ha più pelle che viso, o un profilo talmente grifagno che più che etrusco potrebbe appartenere a un pellerossa. Come sempre mi domando perché sia necessario rendersi ridicole per seguire la moda, e se non sia meglio avere un proprio stile che quello altrui, ma io sono una notoria stravagante, e poi, come dice mia madre, la nuca rasata non è una pettinatura da donna, evidentemente quella da “Venere di Botticelli” si, indipendentemente dal fatto che c'entri qualcosa con chi la sfoggia o meno.
Si sta facendo buio, mi concedo un ultimo giro delle bancarelle illuminate, passo a salutare il mio conoscente antiquario e torno in albergo, domani si va verso Savona.

martedì 18 agosto 2009

Pensando a Silvio (no, non quel Silvio …)

Stamattina mi sono svegliata prestino, ho fatto come sempre la mia ginnastica, in versione short program a causa delle dimensioni ridotte della camera, inadatte ad alcuni esercizi.
Mentre facevo ginnastica pensavo che non sarebbe difficile, nemmeno per alberghi tutto sommato piccoli come questo in cui sono a Livorno, creare una stanza per la ginnastica, dovrebbe far parte delle normali dotazioni alberghiere, come il televisore in camera, la wi-fi gratuita (qui è a pagamento) e almeno un cane e un gatto.
Da questo punto di vista il Park Hotel Garden di Livorno è messo bene, infatti gli ospiti sono accolti da un vecchio cane obeso che elemosina coccole da chiunque, da un pacifico gatto che un qualche incidente di percorso ha privato della coda, e di un altro gatto allergico alle punture di zanzara.
Fatte ginnastica e doccia, vado a far colazione, e mi lascio tentare da una brioche al cioccolato, visto che ho finito la frutta in macchina, e il bar dell'albergo non prevede altro che quelle brioche. Sono mesi che non ne mangio, e so che la pagherò, spero non troppo.
Mentre sbocconcello la brioche vedo sulle pareti alcune stampe della vecchia Livorno, coi suoi viali percorsi dai tram, e osservo, in questa come in altre circostanze, che le città prive di macchine hanno un'aria più pulita, ordinata, e in un certo senso più opulenta, di maggior benessere.
Lo so, ultimamente batto su questo tasto più del solito, ma in questo viaggio ho visto città e piccoli centri ingolfati, deturpati, sviliti dal continuo traffico, e non riesco a mettermi nei panni di quegli amministratori così pusillanimi da cedere al ricatto delle automobili, svendendo quel territorio che dovrebbero preservare. E' dai tempi di Gorizia che faccio queste prediche, voce di uno che grida nel deserto, e so che nessun amministratore, di qualsivoglia parte politica sia, mi ascolterà mai.
Seguendo le indicazioni per riprendere l'Aurelia in direzione di Grosseto percorro i viali a mare, che a quest'ora del mattino sembrano una Promenade des Anglais in minore, con la gente che fa jogging prima che venga il caldo vero. Passo davanti alla famosa Accademia Navale, con la sua aura di romanticismo alla Ufficiale e Gentiluomo, e poi finalmente saluto Livorno.
La decisione di tornare sui miei passi è meditata: devo arrivare a Collesalvetti, e avevo visto le indicazioni già in città, ma ho come l'impressione che prendere la deviazione da dove la segnalava Viamichelin mi riserverà qualche sorpresa. Infatti è così, il paesaggio muta drasticamente.
Sto decisamente andando verso nord, e lo testimoniano sia il verde più vivo ai lati della strada, sia la maggiore umidità che percepisco sotto forma di una sensazione di appiccicoso sulla mano che allungo fuori dal finestrino.
Percorro questa strada in direzione di Pisa, che attraverso, con la tentazione di una visita al Campo dei miracoli, ma mi accontento di scorgere la sagoma della cupola e della torre pendente, vorrei arrivare a Sarzana prima di pranzo.
Da Pisa, in direzione di Massa, arrivo a Lido di Camaiore, dove mi fermo per una sosta tecnica (pipì e caffè). Costeggio uno stabilimento balneare buffamente chiamato Isonzo, e mi siedo in un bar che ha tutta l'aria di essere uno dei must della litoranea. Chiedo un caffè shakerato senza zucchero, mi servono un caffè frappè con sciroppo di vaniglia. Non è la stessa cosa, ma non ho voglia di mettermi a discutere, ho sete e caldo e lo bevo lo stesso.
Riparto per arenarmi subito nel traffico infernale, anche oggi, come ieri, riesco ad imbastire una deviazione dettata solo dal senso dell'orientamento, e a riprendere l'Aurelia in direzione di La Spezia.
Viaggiare a questa velocità minimissima ha come conseguenza che si perde un po' il senso della distanza, e trenta km sembrano il doppio, per rassicurarmi di non aver sbagliato tutto tiro fuori la cartina, la spiego a un semaforo rosso, mi faccio suonare perché non riparto al verde, ma per lo meno mi accerto di essere in traiettoria.
Ieri sera ho prenotato un albergo, non a Sarzana, ma a Santo Stefano Magra, e decido che ci andrò subito, in modo da farmi una doccia. Arrivo e non c'è nessuno. Suono più volte, come consiglia un cartello appeso, ma niente. Un po' di cattivo umore torno verso Sarzana, e lì faccio un'altra scoperta poco simpatica: la mostra inizia alle 18.00. Sui cartelli, e sul sito internet, non c'è scritto niente, e non sono in grado di ricordare se era già così tanti anni fa, quando ci sono venuta un paio di volte.
Giro un po' per la cittadina, non c'è molto di aperto, visto che per adeguarsi agli orari della mostra anche i normali negozi fanno orario notturno, finché non mi viene fame, e mi siedo fuori da un locale specializzato in focacce e farinata, d'altra parte siamo alle porte della Liguria, e queste sono cose tipiche. Ordino la farinata, che qui è fatta di grano e non di ceci, condita col pesto. E' ottima, anche se un po' pesante, così provo a tornare in albergo.
Questa volta sono fortunata, trovo i proprietari e prendo possesso della mia cameretta. E' un po' minimalista e dà sulla provinciale, speriamo bene per il traffico. Faccio una doccia veloce, leggo un po', schiaccio un pisolino, e sono pronta ad affrontare la mostra.
Tutto il centro storico della piccola cittadina è guarnito di bancarelle, con ogni e qualsiasi tipo di oggettistica di antiquariato. Ci sono alcune cose graziose, altre che sono vera paccottiglia, c'è il cosiddetto modernariato, che a me proprio non piace, ci sono le vecchie lenzuola della nonna, un po' di tutto e per tutti i gusti. Il mio interesse per questo tipo di cose è puramente estetico, non c'è assolutamente nulla che acquisterei, nemmeno un paio di tavoli che trovo interessanti.
La mia casa minimalista mi va benissimo, è perfettamente adeguata alle mie esigenze (ospitare i miei libri fondamentalmente) e a quelle dei miei gatti (che possono fare danni senza che per questo si demolisca un patrimonio), nonostante ciò ho una discreta conoscenza, o meglio, un certo gusto, per distinguere che cosa vale al pena e che cosa no, che di solito sfogo su oggetti piccolissimi.
Girellando per gli stand incontro una mia conoscenza, che molto gentilmente mi offre la possibilità di visitare la parte veramente sostanziosa della mostra, vale a dire quella ospitata nella fortezza, senza pagare il biglietto.
I primi stand sono dedicati ai gioielli, che sono d'epoca e assai vistosi. Ci sono pezzi veramente pregevoli, soprattutto cammei, ametiste e perle, e per un breve momento mi innamoro di una collana a doppio giro, in oro e perle, degli anni '40, che viene venduta per la modica cifra di 2.200,00 euro. E' una cotta velocissima: non porto gioielli, e pertanto non hanno alcun vero potere su di me.
Continuo a girare per le stanze della fortezza, che ospitano mobili, quadri, sculture, stampe, ogni e qualsivoglia ben di dio il passato ci abbia lasciato in eredità, proveniente da miriadi di fonti, non escluse chiese e sacrestie, poi lo vedo. E' un piccolissimo olio su tavola, deposto all'interno di una vetrinetta foderata di azzurro assieme ad altri, e spicca su tutti per la sua luminosità, la morbidezza del tratto, la felicità della composizione. E' un campo di grano maturo, in salita, sul quale alcune figurette di mietitrici si danno da fare. Lo guardo. Passo oltre. Torno indietro. Cerco di interessarmi alle altre tavolette, ma gli occhi ricascano sulle mietitrici, che sono di Silvio Poma, uno stimato paesaggista lombardo dell'ottocento. Allo stand non c'è nessuno, e sto per andarmene rassegnata, quando arriva una ragazza, a cui chiedo il prezzo della tavoletta, che mi sta letteralmente scavando dentro. Duemiladuecento euro. Non ho abbastanza soldi, né in contati né sulla carta di credito, per mia fortuna, così le dico che ci penserò. E il problema è che ci sto veramente pensando.

lunedì 17 agosto 2009

California dreaming

L'alberghetto di Grosseto si è dimostrato comodo e tranquillo, oltre che fresco senza bisogno del condizionatore, mi faccio una solenne dormita e mi sveglio riposata alle sei e mezza.
Faccio il ciclo completo dei miei esercizi di ginnastica, una bella doccia, carico la macchina e vado a pagare. Alla cassa c'è lo stesso cerbero di ieri, ma si vede che anche lei ha dormito bene, visto che è molto più gentile e disponibile. Mi chiede se ho riposato bene, mi fa il conto, chiama un aiuto per la carta di credito, e poi, colta da un soprassalto di coscienza, anche perché sulla ricevuta è scritto “pernottamento e prima colazione”, mi chiede se voglio un caffè.
Ovviamente lo accetto e prendo anche un bicchiere d'acqua, e sferro al cerbero il colpo finale: dopo il primo sorso esclamo “complimenti, veramente buono”. Non mi costa fatica perché effettivamente non è male, forse un po' leggero, ma con un retrogusto quasi perfetto, e cerbero gongola così tanto che vedo quasi un rigurgito di senso di colpa affiorare sui lineamenti incartapecoriti. Me ne vado prima che si commuova, non si rovina così una simile maschera schiettamente burbera.
Riprendo la mitica Aurelia, e nel giro di pochi km me me rompo le scatole. Sono stufa di colli, voglio vedere il mare, e poi questa statale assomiglia troppo a un'autostrada.
Sono attratta da un piccolo paese, che si staglia sulla cima di una collina come la prora di una nave, esco alla prima e cerco di raggiungerlo. E' poca cosa, due porte in pietra, delle quali una sola originale, un'unica via, qualche bottega, rigorosamente chiusa per ferie. Doverosamente lo percorro, scatto un po' di foto, ma il caldo è opprimente, e risalgo in macchina. Aria condizionata e Davide Vandersfroos. E' buffo sentire canzoni in laghé (il dialetto del lago di Como) nel cuore dell'idioma italico, ma tant'è, è una musica che mi piace e mi diverte, oltre che una valida alternativa al rock duro che ascolto quasi sempre.
Prendo in direzione di Castiglion della Pescaia, anche perché è urgente trovare un distributore di benzina, quando arriva. Sapevo che sarebbe successo, e avevo anche intuito il quando e il come, ma lo stesso l'onda di lacrime arriva imprevista. Mi fermo e aspetto che passi, tributo da pagare a una vacanza che faccio da sola quando l'avevamo pensata in due, ed è un altro pezzetto che se ne va, ma è giusto così, non sono propensa a lasciare incancrenire le ferite senza debita cauterizzazione.
Tolgo Vandersfroos dal lettore e lo sostituisco con un po' di rock duro, molto meglio.
Trovo il distributore, ai piedi della collina sulla quale si staglia in centro storico di Castiglion della Pescaia, il traffico decide al mio posto e non mi fermo, proseguendo verso Livorno sulla strada litoranea. So che sarà un massacro a causa del traffico, ma al momento non me ne frega niente.
In effetti si va pianissimo, a causa dei continui inserimenti di auto e camper, attraversamenti di pedoni e quant'altro. Arriviamo a Scarlino, e la colonna quasi ferma mi da agio di riflettere sulla totale schizofrenia italiana.
Mi spiego: l'abitato turistico, le spiagge, sono sovrastati dalla ciminiera fumante di uno stabilimento chimico. Non ho niente contro gli stabilimenti, né chimici né di altro genere, in fin dei conti sono un chimico, ce l'ho col fatto che la nostra nazione non ha mai, da quando è nata, effettuato una politica coerente del territorio, cambiando vocazione allo stesso con la stessa frequenza con cui io mi cambio gli slip (cosa che avviene assai spesso), col risultato di avere zone turistiche dominate da stabilimenti industriali, in una contaminazione che dal territorio si spande sulle persone, così che i nostri addetti al turismo sono, quando va bene, dei dilettanti, rozzi, impreparati, furbetti e maleducati. Sono i primi a non avere rispetto per il territorio, per cui non esigono una seria politica di pulizia e sgombero, perché questa situazione favorisce il turismo di rapina che gli è congegnale.
Da Scarlino a tutti gli effetti non si esce, così faccio un lungo giro, benedicendo il mio senso dell'orientamento che non mi costringe a seguire i cartelli stradali, e riprendo l'Aurelia in un altro punto, rassegnandomi alla similautostrada.
Mancano una settantina di km a Livorno, c'è un certo traffico, ma si può andare, e poi finalmente la statale è più vicina al mare, così ogni tanto guardo a destra e mi beo.
A un certo punto un cartello indica enfaticamente una località di nome “La California”. Mi ricordo di aver già visto qualche cosa di simile vicino a Civitavecchia, e poi so che c'è qualcosa del genere anche vicino a Pavia, e non so dove altro. Quante Californie ci sono in Italia? Che cosa hanno a che vedere con la California americana? Non lo so ma mi piacerebbe saperlo, che qualcuno mi illumini.
Mentre faccio queste considerazioni e altre arrivo a Livorno, giro un po' per orientarmi e alla fine trovo parcheggio dentro un grande giardino. Fa quello che si dice un caldo becco, però all'ombra spira una lieve brezza. Tolgo il computer dalla macchina e mi connetto per scoprire dove andare a pranzo. Individuo un ristorante che si chiama All'aragosta, e che sta vicino all'arsenale, circa un km a piedi. Mi armo di coraggio contro il caldo, e ci vado.
Mi servono dei discreti maccheroncini col ragù di triglie. Dico discreti perché la pasta è ben cotta, le triglie fresche, ma il condimento è troppo oleoso.
Per smaltire passeggio sui viali a mare, cercando di restare dentro l'ombra, e poi vedo un cartello che indica il Museo Fattori, a Villa Minnelli.
La villa è un grosso cubo giallastro, settecentesco, completamente sbarrato, infatti il museo è chiuso il lunedì. Giro per il parco, che mi è famigliare, e infatti a un certo punto mi rendo conto che assomiglia a quello della villa comunale di Gorizia, dove ho passato alcuni anni della mia vita.
L'aiuola d'onore non è circolare, ma tetralobata, e gli alberi all'interno sono carpini invece che cedri, ma è circondata dallo stesso tipo di pietre e diffonde lo stesso puzzo di gatto maschio che proviene dalla mortella. Il parco è così simile che c'è anche una sequoia, questa però, a differenza di quella di Gorizia, è viva.
All'ombra degli alberi l'atmosfera è fresca e tonificante, e su una panchina c'è un tizio che se la dorme. Rifletto un attimo e scopro che non c'è alcuna ragione per cui io non faccia altrettanto, così mi sdraio e ronfo saporitamente per una mezz'ora.
Mi risveglio (anche il tizio che dormiva si è svegliato e mi guarda strano, avrò mica russato? Ogni tanto mi capita) e torno sui miei passi, verso il giardino dove ho lasciato la macchina, nelle cui vicinanze spero di trovare un albergo possibilmente non con prezzi da rapina.
Mi fermo a prendere un gelato in una Gelateria del popolo piena di gente, ma il gelato, decantato artigianale, è un po' una delusione, è dolciastro persino il cioccolato fondente.
Poco prima del giardino c'è un Hotel Giardino, che ha anche un parcheggio interno ed è separato dalla strada da un cortile. Chiedo, il prezzo va bene, recupero la vettura ed entro a rinfrescarmi.
L'albergo è a meno di cinquanta metri dal mare, così mi metto il costume e vado a fare un bagno, poi, per asciugarmi, ripercorro i viali a mare e mi fermo a prendere un aperitivo in uno dei moltissimi piccoli baretti. Un po' leggo, un po' osservo due ragazze alle prese con due cani di grossa taglia molto vivaci. La femmina è una pitbull, il maschio non lo so, ha la faccia di un bulldog, ma la taglia di un labrador, non ho mai visto nulla del genere. Mi sembra che le ragazze non se la cavino male con i loro ingombranti compagni, che dimostrano anche un buon carattere, visto che si lasciano tranquillamente accarezzare, a riprova che i cani cattivi non esistono.
Torno in albergo, mi faccio la doccia ed esco di nuovo per andare a cena. Ho adocchiato un'osteria che recita “specialità livornesi” e si chiama “La ciurma di Max”. E' un locale giovane e trendy, di quelli che per essere moderni riscoprono antiche tradizioni. Di solito li sfuggo, ma questo ha un certo non so che di autentico. Il menù è corto, e questa è già un'ottima cosa, ma per non sbagliare sfodero un bel sorriso e chiedo a Max di darmi un consiglio, facendo presente che non prenderò il caciucco, piatto che conosco, mi piace, ma so essere un po' pesante e abbondante per il mio stomaco.
Max mi consiglia un baccalà con porri, che trovo delizioso, e poi mi serve un eccellente caffè.
Torno in strada e la brezza è così vivace da far pensare quasi al freddo, così, invece di chiudermi in camera, approfitto del cortile dell'albergo per redarre queste note.
Domani valicherò Collesalvetti, e andrò a Sarzana.

Ahi, Capalbio (ovvero la solitudine dei numeri primi) (*)

E' venuto il momento di partire, e cominciare la vera parte alla ventura delle mie vacanze.
Mi alzo abbastanza presto, faccio la mia ginnastica quotidiana, bevo un tè, un caffè, carico la macchina. Diego dice a Matteo di venirmi a salutare perché devo partire, Matteo dice che non devo partire e sottolinea il fatto buttandosi a capofitto a giocare con la sabbia del cortile, e si rifiuta di salutarmi. E' più che giusto, non ha ancora tre anni, sono entrata a far parte del suo mondo, anche se per un breve periodo, e siccome in questa fase della sua vita tutto è suo, anch'io sono sua e quindi nega il fatto che io adesso sparisca.
Camilla è troppo piccola, per cui il rituale del bacio per lei è solo uno dei tanti baci che si prende durante la giornata, e ride felice.
Saluto Michela e Diego, li ringrazio per l'ospitalità, mi sono veramente sentita come a casa mia, e metto in moto, tirando fuori dalla custodia del computer la stampata di Viamichelin con il percorso fino alla Liguria, che poi è una bazzeccola, si tratta di acchiappare la SS1 Aurelia dalle parti di Civitavecchia, e seguirla fin su.
Infatti sul Grande Raccordo Anulare una uscita chiusa mi disorienta, e finisco per imboccare l'autostrada per Civitavecchia. Esco alla prima per limitare i danni, e trovo subito i cartelli direzionali per l'Aurelia. Attraverso una campagna di stoppie, e poi una serie di paesucoli pseudobalneari e tutti uguali, con palme a fiancheggiare la strada.
A un certo punto vedo un bancarella di fruttivendolo, e decido di acquistare qualcosa da mangiare lungo il percorso. Vedo delle strane pesche schiacciate, e mi ricordo che Diego mi aveva detto di averle mangiare in Sicilia e di averle trovare buonissime, per cui ne acquisto un chilo. La fruttivendola me le da miste, un po' bianche e un po' gialle, e sono effettivamente molto buone. Le bianche hanno una polpa consistente, quasi croccante, venata di rosa chiaro, e profumata di rosa canina. Le gialle invece sono pastose, succose, con un profumo intenso di frutta matura.
Ne mangio tre o quattro guidando, e intanto alla mia sinistra, insistente, invitante, vedo il mare.
Arrivo all'altezza di Santa Severa e mi dico che in fin dei conti non mi corre dietro nessuno, così giro verso la spiaggia. Ho scelto la direzione del castello, e più tardi scoprirò di aver avuto una felice intuizione. Il parcheggio è a pagamento e custodito, cosa che mi va benissimo, mentre la spiaggia è libera, cosa che mi va altrettanto bene.
Prendo dal bagagliaio la borsa da mare e mi avvio. Arrivata sulla spiaggia vera e propria mi cambio, coadiuvata dalla mia solita mancanza di senso del pudore, che in fin dei conti mi permette di spogliarmi completamente in mezzo alla gente senza che a tutti gli effetti nessuno se ne accorga.
Una parte della spiaggia, un piccolo golfo, è strapiena di gente e di ombrelloni, mentre poco più in là, ai piedi delle mura del castello, c'è una fascia di scogli, con poche persone.
A me serve qualcuno a cui affidare la mia borsa, dato che ho dentro parecchie cose che mi sono necessarie, e subito individuo un anziano signore intento a leggere sugli scogli. Gli chiedo se posso lasciare le mie cose vicino a lui mentre mi faccio il bagno, ed acconsente di buon grado.
Appena si entra in acqua c'è una specie di piscinetta naturale, della profondità massima di ottanta cm, poi c'è un'altra fascia di scogli, e finalmente acqua profonda.
Mentre annaspo su questa seconda fascia, ricoperta di alghe scivolose, un tizio che sta lì a prendere il sole mi da alcune istruzioni per evitare di scivolare, così, mentre rientro, mi vien naturale fermarmici a parlare.
E' un mio coetaneo, persona simpatica e interessante, e in breve ci raccontiamo quasi la vita. Torno a riva, mi cambio di nuovo col solito sistema, ringrazio e saluto il vecchietto che nel frattempo ha custodito i miei averi, saluto anche il mio recente conoscente rimasto sulla seconda fascia di scogli, e torno verso la macchina.
In breve arrivo a Civitavecchia, e mi fermo di nuovo, anche perché sento la necessità di togliermi di dosso un po' di salsedine, che nel frattempo ha iniziato a darmi fastidio. Infatti sul lungomare trovo una fontana, e mi lavo abbondantemente la faccia e le braccia, fino a togliere ogni traccia di sale.
Faccio due passi guardando le bancarelle, sono sempre le solite cose, ma alla fine mi faccio attrarre da una cavigliera. Mi è anche venuta fame, così in un bar prendo un tramezzino e una coca cola.
Mi rimetto in macchina, con l'idea di arrivare verso Grosseto.
L'Aurelia prende un aspetto quasi di autostrada, per molti tratti è a quattro corsie coi New Jersey in mezzo. Il mare si allontana, e si vedono le colline che dal Lazio transustanziano in Toscana.
A un certo punto, da lontano, vedo sulle alture un paesetto dall'aspetto molto attraente. Dal nome dell'uscita della statale scopro che si tratta di Capalbio. Beh, che si fa? Ovvio, si va a Capalbio, con tutto quello che ne ho sentito parlare nei miei svariati anni di militanza di sinistra!
L'inizio è promettente. Mano a mano che si avvicina il paesetto diventa sempre più promettente, e sulla strada si vedono molti segnali di B&B e agriturismi con alloggio. Decido che prima mi cercherò da dormire, farò una doccia, e poi andrò a vedere l'Atene della sinistra, come l'ha definita un amico che nel frattempo sta in Siria a mostrare ai locali che non è detto che italiano sia sinonimo di eleganza nel vestire.
Il primo posto in cui mi fermo è l'Agribioalbergo Capalbio. Bellissimo posto, immerso nel verde, sicuramente bio, con l'unico problema di avere disponibile esclusivamente una stanza matrimoniale a un prezzo allucinante, e alla domanda retorica fattami dal proprietario (lei si chiederà come mai c'è una stanza libera il 16 di agosto) mi vien voglia di replicare che il motivo sono i prezzi da furto.
Proseguo nella mia ricerca e incasso una serie di risposte negative che arrivano sempre, e sottolineo il sempre, quando capiscono che sono sola. Probabilmente hanno paura del fatto che essendo sola potrei richiedere di pagare per la matrimoniale il prezzo di una singola, per cui mi prendo il no con un bel sorriso, e la segreta maledizione di non ricevere per il resto della giornata altre richieste oltre la mia. Di solito le mie maledizioni vanno a buon fine.
Dopo aver girato e rigirato Capalbio e dintorni, al punto che i morbidi colli toscani mi stanno uscendo dalle orecchie, gli ulivi artistici sono ridimensionati a tronchi contorti, e anche le bianche pecorelle al pascolo mostrano il vero colore giallastro che ha la lana prima di essere lavata, decido che farò un ultimo tentativo, e si tratta dell'albergo Mimosa, a Carige, frazione di Capalbio. E' un postaccio, e appena entro mi accoglie un odoraccio di fritto e rifritto, per cui decido che prenderò la camera solo se sarà veramente economica. Il tizio, con aria rude, mi dice che ha solo una matrimoniale, ovviamente, e il costo è esattamente quello dell'Agribioalbergo. Il mio sorriso a questo punto mostra anche un po' di canini, credo che non avrà richieste di camere per almeno due giorni, e giro i tacchi.
Lascio che Capalbio torni nel suo oblio, mi rimetto in macchina e decido di arrivare a quella che era la mia meta orginale, vale a dire Grosseto.
In realtà non è tardi, potrei arrivare anche più lontano, ma sento la necessità di farmi una doccia e di guardarmi un po' in giro. Trovo un alberghetto non bellissmo ma pulito e tranquillo, ovviamente hanno solo una matrimoniale, e la signora è indecisa sul fatto di darmela o meno finché non le dico che non me ne frega niente, pago il prezzo intero, che tanto è quasi la metà di quello che mi hanno chiesto a Capalbio. Non ho voglia di cavarmela con un sorriso e una maledizione, mi serve la doccia.
Una volta sistemata, scendo, pensando di andare in centro a cena, e invece vedo tutti i tavoli occupati, e sento un buon profumo. Decido di fare il tentativo, e faccio bene, i tagliolini con fagioli e cozze sono ottimi, giusti di cottura, saporiti, e le cozze sono fresche e locali.
Finita la cena riprendo la macchina e torno in direzione di Roma, a Rispescia, dove ho visto che si tiene la festa di Legambiente.
Che dire se non che è una delusione esattamente come Capalbio? Innanzi tutto si paga l'ingresso, dieci euro, e gli stand, a parte pochi, non sono nulla di che, con roba che si trova in questa stagione sulle bancarelle in quasi tutti i paesi turistici. Canterà Irene Grandi, che non mi piace e non mi interessa, e tutto quello che si vede è a pagamento. Per fortuna trovo il Pomario, cioè una esposizione di antiche varietà di piante da frutto. Da un sacco di tempo accarezzo l'idea di mettere a dimora nel mio orto quattro antichi meli, così mi fermo a parlare con la proprietaria delle piante, ed è un colloquio molto interessante. La signora verrà con le sue piante in autunno a Strassoldo, cioè a pochi km da casa mia, e per allora probabilmente potrò dare corso al mio desiderio.
E' ora di rientrare, una buona notte di sonno e domani raggiungerò Livorno.

(*) La solitudine dei numeri primi – Paolo Giordano

sabato 15 agosto 2009

La colazione dei campioni (*)

E' ferragosto, e come da programma andiamo a Bracciano, dove vivono i nonni di Michela, e dove ci fermeremo a pranzo. Dato che i nonni sono molto anziani, e i genitori di Michela non hanno il tempo, portiamo il necessario per il pranzo, compreso il vassoio di porchetta di Ariccia acquistato ieri.
Riusciamo a partire più o meno secondo la tabella di marcia, dato che prima di mangiare abbiamo intenzione di visitare il famoso castello Odescalchi, quello in cui, i mondani ricorderanno, si è svolto il pranzo di nozze di Tom Cruise. Inutile dire che io proprio non me lo ricordavo, pazienza.
Lasciamo Camilla, vestita per l'occasione come una signorina inglese con tanto di cappellino di pizzo, con nonni e bisnonni adoranti, e andiamo al castello.
Il biglietto costa sette euro, e a parer mio è un po' caro per una visita guidata che si fa in poco più di mezz'ora, probabilmente la nobile erede attuale proprietaria del castello non ricava dai pranzi di nozze introiti sufficienti per manutenere la dimora.
La guida è un po' accorata e superficiale nelle sue spiegazioni, non so se perché desiderosa di finire il suo incarico in una giornata ingrata come ferragosto o per sua natura e preparazione, pone un accento particolarmente rilevante sul fatto che gli affreschi del soffitto della Sala Papalina sono in oro zecchino, mentre tutto il resto del castello è dotato di un soffitto a cassettoni.
Indubbiamente il castello è molto bello, discretamente tenuto, evidentemente destinato ad usi turistici e mondani che rendono dubbia l'autenticità di molte parti. Tengo per me questa impressione, anche perché siamo abbastanza impegnati ad impedire a Matteo di rendere necessario un ulteriore ciclo di restauri. Il piccoletto sale e scende le scale con immenso entusiasmo e con una energia decisamente superiore alla sua età, e tutto sommato si comporta bene, ma non bisogna dimenticare che non ha ancora tre anni, per cui, a turno, gli imponiamo di dare la mano, altrimenti lo perderemmo presto di vista. A un certo punto ci imbattiamo nella camera da letto di una antica principessa, e questo lo riempie di stupore e ammirazione, spingendolo a immedesimarsi in un possibile principe azzurro.
Finito il giro torniamo dai nonni di Michela e ci dedichiamo alla preparazione del pranzo.
Come promesso preparerò la puttanesca, che, mi dicono, genera qualche preoccupazione a causa dei tempi ridotti di cottura del pomodoro. Prometto che cercherò di prolungare questa cottura quanto più possibile senza snaturare la ricetta. Ci siamo portati tutti gli ingredienti, compresa la pasta, tranne l'aglio e il peperoncino. All'ultimo momento, su suggerimento di Diego, ho messo nella borsa anche un ricco ramo di basilico, ed è stato un ottimo suggerimento perché sul posto non avrei rovato basilico sufficiente per la quantità di sugo necessaria.
Anche il peperoncino dà qualche problema. La nonna di Michela ha solo peperoncino in polvere, poi mi si dice di non esagerare col piccante. Scopro sulla terrazza una pianta di peperoncini, che, contrariamente a quanto pensa l'anziana signora, sono perfettamente commestibili, e, tanto ovviamente quanto malauguratamente, non esagero. La puttanesca deve essere piccante, santo cielo, ma quando si cucina in casa d'altri si cerca di adeguarsi alle altrui necessità.
Insomma che cuoce la pasta, cuoce il sugo, si fanno i piatti, e la mamma di Michela mi prega di mettere poca pasta nel piatto del suo vecchio padre. Eseguo, però portando il piatto in tavola dico all'interessato di prendersela con sua figlia se troverà la porzione insufficiente. E insufficiente risulta veramente, al punto che si finisce il piatto della moglie, impedita a mangiare come si deve dal mal di denti. E ovviamente dice anche che il sugo avrebbe bisogno di più peperoncino. Non mi resta che replicare che se dovesse succedere un bis in un qualche futuro cucinerò senza ascoltare i suggerimenti di nessuno.
Finita la puttanesca ci fiondiamo sulla porchetta, che è sublime, contendendoci i pezzetti di cotenna.
Nessuno si è ricordato dell'insalata, ma in fin dei conti non importa. Mangiamo anche il cocomero, e poi acchiappiamo i bambini e ce ne torniamo verso Roma, con l'idea di fare un bagno serale nell'amato lago di Albano.
Per me è l'ultimo, domani me ne andrò da qui. Ho voglia di completare il mio giro, ma mi dispiace lasciare Michela, Diego, mi dispiace lasciare persino i bimbi … incredibile!

(*) La colazione dei campioni – Kurt Vonnegut

I centri commerciali sono tutti uguali

Questa mattina niente turismo, né normale né gastronomico. Questa mattina centro commerciale: è l'ultimo giorno di saldi, Michela ha bisogno di sistemare il guardaroba in vista della ripresa del lavoro dopo la gravidanza, quale occasione migliore per fare compere, visto che può farlo in compagnia di un'amica e senza marito e figli? Sembrerà uno stereotipo, ma uomini e bambini sono un vero e proprio peso morto quando si debbono fare compere, soprattutto quando è necessario fare delle mediazioni tra quello che si vorrebbe indossare e quello che ci si può permettere di indossare. Sono una specialista in questo, ho dovuto farlo per quasi metà della mia vita, e solo una serie di circostanze non esattamente auspicabili mi hanno aiutato a rientrare in una taglia assai vicina a quella che avevo quando ero giovane.
In ogni caso ce ne andiamo verso il centro commerciale di Roma Eur, passando attraverso il cosiddetto quartiere dei ponti, un orrore che riesco a sopportare solo quando Michela mi assicura che l'architetto che lo ha progettato si è suicidato.
Non ricordo chi mi ha detto che la categoria degli architetti è una di quelle a maggior rischio di suicidio, e non faccio fatica a crederci. Soprattutto se si parla di quelli che sono incaricati di inventare o reinventare interi quartieri di grandi città, e in quello mettono tutti i loro sogni, possono ritrovarsi a fare un atterraggio assai brusco quando, a progetto realizzato, finiscono col rendersi conto di aver perso completamente il contatto con la realtà, e che quindi il loro sogno è appunto un sogno, e non un quartiere vivo e vivibile, anzi, finisce per diventare un dormitorio e ricettacolo di violenza e degrado.
Il centro commerciale è un enorme cubo di cemento a più piani, di uno squallido marrone bruciato all'esterno, a cui si aggrappano come frutti ipertrofici i parcheggi rossi.
L'interno è, giustamente visto che siamo a Roma, di uno stile impero romano mutuato da qualche film holliwoodiano di serie b, ed è farcito di negozi consolantemente identici a quelli di tutti i centri commerciali della penisola.
Troviamo il negozio di reggiseni identico a quello da cui mi servo io a Udine, e questo è rassicurante perché conosco la vestibilità di tutti i modelli, e posso dare sicuramente qualche buon consiglio a Michela che deve dismettere i reggiseni da allattamento, e poi i due negozi di taglie comode e di scarpe da cui ci serviamo entrambe, e noto che il fatto di dire alle commesse che io sono una loro cliente, anche se in quel di Udine, le rende assai affabili nei nostri confronti. In ogni caso acquistiamo quello che ci serve a prezzi ragionevoli, cosa che, come sempre, mi fa riflettere sul fatto che se posso acquistare oggi a undici euro una canotta che di norma viene venduta a oltre quaranta, evidentemente in quest'ultimo prezzo c'è qualche cosa che non va.
Passiamo poi alla COOP, ad acquistare generi di prima necessità, e anche qui i prodotti sono gli stessi di qualsiasi COOP d'Italia, con scarsissime concessioni alle produzioni locali, mostrando così la faccia cattiva della globalizzazione.
Torniamo a casa, pranziamo quasi al sacco, con salumi avanzati e mozzarelline di bufala, e nel pomeriggio andiamo a fare l'ormai consueto bagno al lago di Albano.
Ieri abbiamo comprato i braccioli a Matteo, che però, nonostante li abbia orgogliosamente indossati per tutta la giornata, decide che in acqua proprio non vanno, e cerca continuamente di toglierli. In qualche modo gli facciamo fare il bagno, ma non è molto convinto, e fa il bagno anche Camilla, che invece si diverte un mondo.
Prima di tornare a casa passiamo da Ariccia ad acquistare la porchetta per domani.
E' ferragosto, e il programma prevede di andare a pranzo vicino a Bracciano, dai nonni di Michela, ma facendo una specie di servizio catering.
Così abbiamo deciso che io preparerò la pasta alla puttanesca, che ho già fatto l'altro giorno e che ha suscitato entusiasmo, e poi porteremo una buona dose di porchetta di Ariccia.
Diego chiede consiglio a un collega per il miglior acquisto, e ci viene indicato il porchettaro Cioli, sulla piazza del paese. Che sia buono lo si intuisce da lontano: ci sono due porchettari sulla piazza, uno a fianco dell'altro, solo uno ha una lunga coda che attende fuori, ed è proprio quello dove dobbiamo andare noi.
Mentre Diego attende in macchina coi bimbi, io e Michela ci mettiamo in fila. La maggior parte della gente acquista grossi quantitativi, in vista del pranzo di Ferragosto.
In un bar vicino c'è una coppia che canta, allietando il pubblico. Lei non ha una gran voce, ma è intonata, lui invece è un autentico disastro. Ridiamo a lacrime, e iniziamo a scherzare dicendo che solo l'invitante profumo della porchetta ci può far sopportare un simile strazio, fingiamo di svenire l'una nelle braccia dell'altra ad ogni stecca, e in breve tutta la gente in fila ride con noi.
Quando arriva il nostro turno il porchettaro, che è visibilmente stanchissimo, ci è riconoscente a modo suo: io chiedo che cosa è un prodotto che ha sul banco, specificando che sono lombarda, e lui senza che io lo richieda me lo fa assaggiare (è la famosa coppietta laziale), poi, oltre al quantitativo di porchetta richiesto ce ne taglia una bella fetta a parte per lo spuntino mentre andiamo a casa, e ci saluta ringraziandoci per i nostri sorrisi.
Stasera ceniamo leggeri (si fa ovviamente per dire), costine e polenta grigliati, e in un ultimo soprassalto io e Michela finiamo la crostata con le fragoline. Domani ci aspettano Ferragosto e Bracciano, ma siamo ancora tutti in piedi: Matteo non ne vuol sapere di andare a dormire, e noi stiamo svegli con lui.

venerdì 14 agosto 2009

Lo specchio di Diana

Stamattina ci è riuscito il colpaccio: abbiamo dribblato Matteo, che così è restato a casa con papà e Camilla, e siamo uscite solo io e Michela, per una gita a Nemi.
Questa zona dei castelli romani è stupenda, formata da deliziosi paesetti abbarbicati alle pendici di antichi vulcani nel cui fondo risplendono i laghi. Sono luoghi pieni di una magia naturale, che ha molto a che vedere con la semplice bellezza dei posti, e che gli antichi sentivano sicuramente più di noi, al punto che il piccolo lago di Nemi era considerato lo specchio della dea Diana, in onore della quale sorgeva un enorme tempio.
Arriviamo a Nemi da Genzano, percorrendo quindi tutto il perimetro del lago, e dopo essere passate da Albano.
Albano è un paesone incasinato, con un traffico straboccante e indisciplinato, composto per la gran parte di SUV, e riusciamo a venirne fuori solo grazie a una enorme pazienza e alla coscienza che essendo in ferie non ci corre dietro nessuno, visto che il concetto di dare precedenza sembra del tutto sconosciuto agli autisti locali.
Arriviamo finalmente a Nemi, e troviamo da parcheggiare con relativa facilità, subito fuori da un'antica porta.
Torniamo indietro a piedi, ammirando le antiche case del centro, sormontate dalla mole cilinrica della torre di Palazzo Ruspoli, un rudere al quale un restauro d facciata ha restituito un aspetto decoroso a mascherare l'interno in rovina.
Dall'alto vediamo il lago, di un turchino quasi irreale nel suo guscio di verde, anche se è palesemente sofferente: il livello è basso e su un lato si nota una proliferazione di alghe, che non dovrebbe esserci.
Giriamo per qualche viuzza pittoresca, sorprendendoci delle antiche doppie porte col vetro coperto da un merletto e dei baldacchini di glicine, poi andiamo verso la piazza a sbalzo sul lago, per gustare una coppa di fragoline di bosco con la panna.
Il prezzo, già lo sappiamo dall'esperienza dell'altro giorno, sarà un furto, ma decidiamo di concederci ugualmente il piacere. Mentre centelliniamo le fragoline, ci ritroviamo a fare una serie di considerazioni, che valgono per Nemi come per tutti questi paesini.
Sono letteralmente soffocati dal traffico, la via centrale di Nemi, per esempio, stretta e tortuosa com'è è addirittura un doppio senso, e la gente utilizza palesemente le auto, che sono soprattutto grossi fuoristrada, a sproposito, più per fare avanti e indietro salutando gli amici seduti ai tavolini dei bar, che per vera necessità.
Sono trascurati. E' vero, ci sono insegne che reclamizzano le bontà del posto, ma hanno un'aria un po' equivoca, come se fossero state messe per fare un laido occhiolino ai turisti piuttosto che per vera convinzione. E i cassonetti straboccanti immondizia nel caldo infernale di agosto finiscono di completare un'immagine di qualcosa di poco amato, anche se sciorinato per gli eventuali visitatori. Che, giustamente, sono pochini.
Nonostante ciò, troviamo qualche autentico gioiello.
La signora che seduta sulla soglia della sua bottega lavora dei merletti a fuselli, e l'interno della bottega è un antro di questi tesori meravigliosi.
Il forno a legna dove acquistiamo il pane, che troveremo buonissimo anche se meno di quello di Rocca di Papa, e dove vedo in una scansia dei magnifici taralli al vino rosso.
Un fruttivendolo che vende frutti di bosco a prezzi umani, e infatti ne acquistiamo un po' per fare una crostata da mangiare a merenda.
E infine l'Antica Norcineria. L'avevo adocchiata quando siamo entrate in paese, è la primissima bottega che si incontra e mi aveva strappato, anche così, dalla macchina, un “Ossantocielo”, per cui prima di ripartire ci andiamo. L'esterno è pavesato di capicollo e altre delizie, l'interno è una grotta che al posto delle stalattiti ha salami, collane di salsicce e prosciutti. In un angolo, come preziose concrezioni di quarzo, biancheggia una selezione di formaggi, principalmente di pecora.
Michela consiglia di provare il “coglione di mulo”, un salume che ha la forma dell'organo da cui prende il nome, ed è un salame di grana fine, con al suo interno un cuore di lardo, fortemente pepato e aromatizzato al ginepro.
Nel frattempo io ho adocchiato un prodotto che, mi spiega la norcina che mi sta servendo, è costituito da filetto di maiale aromatizzato con varie spezie (io sento peperoncino, semi di finocchio e alloro), avvolto in una carta speciale, legato, messo in salamoia e poi fatto essiccare.
Compriamo questi due salumi, che saranno, assieme al pane di forno, il nostro pranzo (e cena e spuntino di mezzanotte), e ci rimettiamo in viaggio verso casa.
Nel pomeriggio io e Diego portiamo Matteo al lago. Il piccolo ha gradito moltissimo il bagno di ieri, e oggi abbiamo deciso di fargli prendere confidenza col gioco della palla in acqua. Si diverte come un matto, al punto che Diego deve faticare parecchio per farlo uscire, nonostante stia tremando visibilmente di freddo.
Una volta sulla sabbia, non sta fermo nemmeno il tempo necessario ad asciugarsi un pochettino, così in breve è completamente ricoperto di una panatura nera e lucente.
Lo lasciamo strisciare stile marine, se non che butta sabbia dappertutto, così finiamo panati anche noi.
E' ora di tornare a casa, e ovviamente Matteo si addormenta di schianto, al punto che lo infiliamo direttamente a letto.
Nel frattempo Michela ha ricevuto in regalo dal vicino di casa una guantiera di fichi, saranno almeno tre chili, e ha preparato una crostata con le fragoline acquistate a Nemi.
Ceniamo con salumi, fichi, crostata e pane avanzato da ieri.
Mangiamo lentamente, chiacchierando, e a mezzanotte scopriamo di aver lasciato giusto un po' di crostata per la colazione di domattina.
Sappiamo che il risveglio sarà duro, ma ne è valsa la pena.

mercoledì 12 agosto 2009

Crollo psichico

Ho appena finito di fare colazione e sto controllando alcune cose su internet mentre aspetto che Michela finisca di prepararsi, quando, tradendo gli impegni presi con me stessa per queste vacanze vado sul sito di Repubblica, e leggo l'ennesima sparata leghista di questa estate piena di convulse scemenze, vale a dire la proposta del ministro Zaia di affidare a RAI educational delle trasmissioni da svolgere in dialetto al fine di promuovere le culture locali.
Per essere più precisi il ministro propone che le trasmissioni dedicate al territorio e ai prodotti locali siano tenute nel dialetto del posto, cosa che secondo lui darebbe un sapore più autentico a queste cose tradizionali.
Per esempio, la ricetta dell'oss bus in gremulada dovrebbe essere rigorosamente data in dialetto milanese, e quella dei bruscit in dialetto di Busto Arsizio, quella dei cjarsons in friulano, la ribollita in fiorentino, la pastiera e i purpatielli alla Luciana in napoletano, e via così.
Si da il caso che siano tutti piatti che so fare, e il fatto che, pur conoscendone i nomi originali, chi mi ha insegnato le ricette lo abbia fatto rigorosamente in italiano non li rende di sicuro meno autentici, mentre è certo che se qualcuno tentasse di descrivermi la preparazione dei cjarsons in lingua friulana non otterrebbe da me altro che uno sguardo di totale incomprensione.
Si da il caso, come ho già detto più volte, che io sia una lombarda residente in Friuli che non parla e non capisce alcun dialetto, ma questo non mi priva né dell'interesse né della capacità di cimentarmi con varie cucine regionali, ma a quanto pare al ministro Zaia sfugge il fatto che in Italia ci siano italiani che parlano italiano, lingua la quale essendo quella della repubblica è la sola in grado di veicolare per tutti tutti i contenuti, cosa che i dialetti, pur con tutta la possibile (e impossibile) dignità non possono fare.
Ho sempre ritenuto Zaia il pezzo migliore di questo governo, l'ho sentito più volte intervistato a Decanter, una trasmissione sul cibo e la cultura del buon bere e del buon mangiare che ascolto volentieri, e mi era sembrata una persona misurata e competente, per cui attribuisco questa sua uscita decisamente poco intelligente alla calura estiva: si sa, il solleone provoca crolli psichici, in questa stagione escono i matti e coloro che non lo sono tendono a diventarlo.
Riassumo la proposta del ministro leghista a Diego e Michea. Diego è un friulano trasferito a Roma, Michela una romana puro sangue, di me ho già detto più sopra, e ci troviamo d'accordo nel giudizio in un corale vaffanculo, al ministro e alla sia idea geniale.
Nel frattempo Michela è pronta, e Matteo, che ha deciso di venire con noi, pure. Diego resterà a casa con Camilla.
Saliamo in macchina e ci dirigiamo verso Castelgandolfo.
Scendiamo dalla macchina, e l'auto della polizia ferma davanti al cancello ci dice che sua santità sta nella sua residenza estiva, che pertanto non è possibile visitare. Cerchiamo di indirizzarci verso la zona archeologica, ma ci si presenta davanti una salita impossibile da fare con il passeggino, così torniamo in macchina e raggiungiamo la nostra seconda meta, vale a dire Rocca di Papa.
Il paesetto è delizioso, ancorché infestato di macchine che starebbero meglio da un'altra parte, e di cassonetti puteolenti, che mi fanno esclamare un “Raccolta differenziata no grazie, eh?” sotto lo sguardo attonito di due tizi che siedono sul gradino di una botteguccia mangiando cocomero e gettando i pezzi di buccia direttamente sulla piazzetta che si affaccia su un panorama meraviglioso.
Percorriamo le stradette in porfido con il naso all'aria, ammirando il borgo, che pure avrebbe bisogno urgente di un restauro e nonostante ciò è suggestivo, con Matteo sul passeggino che fa continue domande su qualsiasi cosa. Arriviamo, dopo una svolta, al principio di una discesa vertiginosa, e a quel punto Matteo esclama “Giù”, intendendo dire che ne ha avuto abbastanza del passeggino e che intende camminare da solo. Lo facciamo scendere, gli diamo un paio di raccomandazioni essenziali, e ci avviamo.
Il bambino non salta nemmeno una delle infinite scalette che fiancheggiano la strada, e viene fermato prima che si possa fiondare correndo in tutti i negozi che si aprono di lato. Sono tutte piccole botteghe, con merci un po' dubbie in vetrina, e sono un po' strane soprattutto per me che sono abituata agli infiniti franchising dei negozi del nord, e dove comunque i negozi, anche quelli che conservano una certa quale aria di bottega, cercano di mostrare al pubblico una facciata ampia a luminosa. Qui paiono aperture di grotta.
E una vera e propria apertura di grotta ci introduce in un vecchissimo forno a legna, uno stanzone di vendita che da sulla sala del forno, che ha l'aria di aver visto tutte e due le guerre, e forse qualcuna di più, di più antica.
Il profumo di pane ci ha attirato dentro, e sul banco, vecchissimo, ci sono alcune pagnotte lunghe, dalla crosta grigiastra e lievemente annerita dalla fuliggine. Ne prendiamo una, e la fornaia ce la taglia per renderla più maneggevole, rivelando all'interno la tipica mollica morbida ed elastica, occhiata finemente, caratteristica del pane di grano duro preparato con la pasta cresciuta e un paio di giorni di lievitazione. La fornaia dà anche a Matteo un pezzetto di pizza bianca, che lui rifiuta di dividere con la mamma e la specie di zia acquisita (cioè io), e poi, mentre scelgo da una mensola un sacchetto di ciambelle con la granella di zucchero, lascia cadere che domani farà le crostate. Molto dispiaciute le diciamo che siamo solo di passaggio, ma poi ripensiamo a questa proposta per tutta la giornata, e chissà mai, potremmo anche tornare domani.
Continuiamo la nostra discesa, con Matteo che ha finito la pizza e chiede pane, e tace e cammina allegramente, anche quando torniamo indietro, e quindi saliamo, finché ha il suo pezzetto in mano.
Scherzando diciamo che dobbiamo calcolare quanti km sarebbe in grado di fare con l'intero filone.
Torniamo a casa, mangiamo e facciamo tutti un riposino, e poi, come deciso ieri, andiamo al lago di Albano a fare il bagno e prendere il sole. Camilla sta sulla spiaggia nera con Michela, mentre io, Matteo e Diego entriamo in acqua. I contrafforti vulcanici del lago sono punteggiati di parapendio, e li indichiamo a Matteo come compensazione del mancato spettacolo dei canadair di ieri.
Mi porto dietro Matteo attaccato alle spalle, e si diverte così tanto che al momento di uscire fa un capriccio epico, che alla fine gli costa un meritatissimo scapaccione.
Una volta calmata la buriana gli si dice che torneremo domani, e di ricordarsi la palla, perché si giocherà a pallanuoto.
Torniamo a casa, nessuno ha voglia di cucinare, e anche la fame non è gran che, così finiamo per mangiare fette di pane casereccio, seguite da anguria accompagnata da ciambelle, intanto che progettiamo la gita di domani, e sarà a Nemi.

Del maritozzo

No, non è un nomignolo più o meno affettuoso per un marito basso e un po' atticciato, il maritozzo è una specialità di Roma.
L'altro giorno, arrivando, avevo espresso il desiderio di gustarlo di nuovo, dopo oltre vent'anni dall'ultima volta, e Diego stamattina, smontando dall'ultima notte di lavoro, si è fermato in un laboratorio a prenderne un paio, oltre ad altri generi da colazione mattutina.
Il maritozzo è una specie di grosso e oblungo panino al latte, che può essere o meno con uvetta, che viene tagliato a metà per il lungo e farcito di panna montata.
Teoricamente semplicissimo, come tutte le cose veramente geniali può riservare sgradevoli sorprese così come gioie sublimi.
Il maritozzo sublime deve essere appena sfornato, consistente ma né duro né gommoso, saporito, non eccessivamente dolce. Se è nella versione con uvetta deve conservare il sapore da maritozzo, che è completamente diverso da quello del panino con uva sultanina. Il taglio longitudinale deve separare quasi completamente le due metà, lasciando però un istmo non fragile a congiungerle, dato che questa spaccatura farà da soletta a sostenere la consistente farcitura di panna. La panna in questione deve essere freschissima, ariosa, senza sentore di burro, ma anzi, con aroma di latte fresco, non deve dare sensazione di pesantezza, lo zucchero deve essere tanto quanto serve ad enfatizzarne il sapore senza prevaricarlo. Il maritozzo tipico è lungo una ventina di centimetri e fornisce sufficienti calorie da attraversare lo stretto di Gibilterra a nuoto, ma di questa sua carica energetica non deve esserci traccia mentre lo si mangia, deve andare giù, un boccone dopo l'altro, la fragranza della pasta esaltata dalla freschezza della panna, e la lievità della panna supportata dalla consistenza della pasta.
Poi però però per una intera giornata, soprattutto se non lavorativa, ci si sostenterà con qualche verdurina, lasciando lo stomaco libero di tentare di avere la meglio sul maritozzo.
Dopo cotanta colazione oziamo, i bimbi sono sempre un po' esagitati, e cerchiamo di fare un qualche genere di programma, che al momento si arena sul fatto che nel pomeriggio Diego e Michela dovranno portare Camilla dal pediatra.
Quando tornano io e Diego decidiamo di compiere una piccola esplorazione sul lago di Albano, che avevamo costeggiato ieri sera durante la nostra scorribanda serale.
Come si sa, il lago è formato da due crateri vulcanici, è un occhio azzurro sul fondo di una conca verde sormontata su un lato dalla mole di Castelgandolfo. Sulle rive si stendono spiaggette di sabbia vulcanica nera, con scintillii di mica.
La maggior parte della gente probabilmente è al mare, sulle spiaggia che scegliamo ci sono una ventina di persone in tutto, che prendono il sole e fanno il bagno nel lago.
Facciamo il bagno anche noi, l'acqua è pulitissima, e al di là delle boe di balneazione scivolano canoe e piccole barche a vela. Da qualche parte c'è un incendio, lo intuiamo dal fatto che sull'altro lato del lago si abbassano in successione i Canadair a fare il pieno d'acqua.
E' la prima volta che li vedo in azione così da vicino. I piccoli bimotore scendono a sfiorare la superficie del lago, aprendo i serbatoi che devono riempirsi, per poi riprendere quota compiendo un giro stretto sopra la conca. Guardando le loro manovre giungo a due conclusioni: devono avere motori potentissimi, e piloti coi controcazzi.
A un certo punto arriva un gruppo di bengalesi, si dispongono in un angolo della spiaggia, con tavolino e altri confort. Sono parecchi, almeno una decina, uomini, donne e bambini, sono allegri, rumorosi, hanno un pattino con cui vanno in acqua, spruzzandosi e ridendo.
Mi rendo conto che molta della gente sulla spiaggia li guarda male, qualche matrona si affretta a paludarsi nell'asciugamano per togliere il costume salvaguardando il pudore (quello dei vicini che potrebbero rimanere un po' sconvolti da certe carni, è il mio pensiero un po' maligno) e ad andarsene.
Io ripenso alle fragole di ieri a Nemi, e suppongo di aver trovato chi può averle raccolte.
Nel frattempo però è venuta anche per noi l'ora di andare, abbiamo deciso di fare una grigliata di sole verdure per cena, e dobbiamo comprare qualcosa. Mi tolgo il due pezzi che non ha fatto in tempo ad asciugarsi (senza paludarmi in alcun asciugamano, visto che non ho alcun pudore da salvaguardare), e infilo a pelle i jeans e la maglietta, e ce ne andiamo ripromettendoci di tornare domani con Michela e i bimbi.
Mentre torniamo alla macchina deploriamo lo stato di trascuratezza in cui versa il vialetto di accesso alla spiaggia. Il comune di Castelgandolfo si è affrettato a circondare il lago di parcheggi a pagamento, ha costruito un bel lungolago, con accessi alle spiagge, ma a quanto pare il suo interesse si è fermato lì, non c'è alcuna valorizzazione delle stesse, né alcun servizio, e l'incuria della gente, che come sempre in Italia scambia la res publica con res nullius, fa il resto.
Torniamo a casa, e mentre Diego si dedica alla griglia io produco una salsina di prezzemolo e aglio per le verdure, e una dadolata di pomodoro fresco per le bruschette.
Finalmente i bimbi vanno a dormire, e rimane solo Mila, cagnona golosa, ad elemosinare pezzi di bruschetta e di patata cotta sotto la cenere.
Restiamo a chiacchierare io e Michela, cercando di definire un programma per domani, ci diciamo che ci alzeremo presto, chissà ...

lunedì 10 agosto 2009

Fragoline a Nemi

Oggi giornata tranquilla, o per meglio dire comatosa. Io dovevo smaltire i molti km fatti, Diego era al lavoro e Michela alle prese coi bimbi, che avevano deciso di dare il meglio di sé.
Camilla ha la febbre, sta decidendo di mettere il primo dentino, cosa che peraltro non le imepdisce di essere una smorfiosetta ridanciana, vivacissima e molto ruffiana.
Ho scoperto di aver dimenticato del tutto quel poco che posso aver mai imparato su come si tiene un bambino piccolo: in qualche momento di emergenza, provocato da Matteo che oggi ha crisi di gelosia, Michela mi ha schiaffato in braccio Camilla, e dalle foto che mi ha fatto emerge tutta la mia totale incompetenza in materia. Le foto finiranno su Facebook, a perenne memoria del fatto che ho il senso materno di Erode.
Matteo, si diceva, oggi è preda di attacchi di gelosia, e quindi fa capricci a raffica, e si infila in situazioni dalle quali non può uscirne che male, come quando salta nella sua piscinetta nudo come un bruco, picchiando una culata epica che gli sbuccia il fondoschiena, a svariate corse nel giardino, di ciascuna delle quali porta a casa un ricordino.
Ammiro Michela, che riesce a destreggiarsi coi due bambini, dando loro contemporaneamente da mangiare con una tecnica degna della dea Kalì. Se mai l'avessi dimenticato, ricordo perché non ho voluto altri figli oltre al primo, proprio non ci sono portata.
La giornata è caldissima, e infatti quando Diego torna dal lavoro passiamo il pomeriggio discutendo di che cosa potremo fare di lì a poco, quando usciremo.
Finisce che io mi addormento in cortile, sotto lo sguardo vigile di Mila, cagnona pastore belga nell'aspetto ma Labrador nel cuore, anche Michela e Diego riposano un po' e persino i bambini, che oggi pare abbiano le duracell, cedono un pochettino.
Quando ci risvegliamo tutti decidiamo che usciremo dopo aver dato la cena ai piccoli, così facciamo, e riusciamo a uscire dopo le otto.
La nostra meta è Nemi, città rinomata per le sue fragoline di bosco, dove pensiamo di prendere un gelato. Usciamo di casa, in questa periferia di Roma che è già campagna, la strada che percorriamo non è illuminata, ed è fiancheggiata da orti e vigne, poi improvvisamente ricompaiono caratteri urbani, che spariscono quasi immediatamente, per lasciare spazio all'aspetto rurale.
Saliamo verso i castelli, Castel Gandolfo, Rocca di Papa. C'è gente ovunque, in cerca di refrigerio. La strada è suggestiva, e permette di vedere l'abitato ai nostri piedi, un immenso collier filigranato e composto di gioielli scintillanti e multicolori.
Finalmente arriviamo a Nemi, scendiamo dalla macchina e scopriamo che la temperatura è decisamente più bassa che in città, 19 gradi contro i 35 e oltre, e infatti Michela resta in macchina coi bambini, i quali, dopo aver fatto i capricci tutto il giorno, adesso, in macchina, sono crollati di schianto. Prendiamo il gelato nella prima gelateria che ci viene sotto gli occhi, e non è eccelso, in compenso ci sono i cestini con le fragoline, e proprio non posso resistere.
Portiamo il gelato a Michela, bloccata in macchina coi bambini, e facciamo due passi nel centro della città, che è deliziosa e merita una visita diurna, che ci ripromettiamo di fare nei prossimi giorni.
Sulla piazzetta, che è poi una terrazza affacciata sul lago, c'è un bar, molto opportunamente chiamato Bar delle Fragole, e Diego decide di acquistare una coppa di fragoline con la panna per Michela. La coppa è bellissima e sicuramente molto buona, ma il suo prezzo è un furto. Capisco che raccogliere i piccoli frutti in quantità sufficiente sia un lavoro lungo e impegnativo, ma mi chiedo anche chi lo faccia. Non credo che i raccoglitori di fragole siano oggi persone del posto, pagate decentemente, ho invece il sospetto che siano coloro che a sentire certi nostri ministri sono coloro che portano via il lavoro agli italiani. Vabbè, sono in vacanza, sto cercando di non leggere i giornali, qui, come in tutte le case con bambini piccoli, la televisione mostra cartoni animati a getto continuo (a proposito, ho scoperto che è tutt'ora in auge il mitico Barbapapà, che non vedevo dai tempi della mia lontana giovinezza).
In ogni caso la gita per oggi è finita, torniamo a casa passando da Ariccia, con le sue fraschette famose per la porchetta, che ci annotiamo per i prossimi giorni.
Siamo stanchi, i bambini paiono finalmente calmi, Diego deve prendere servizio per la sua ultima notte di lavoro prima delle ferie. A domani, a domani!



Due immagini notturne di Nemi