Trent’anni fa, una calda mattina di maggio come oggi.
Avevo 17 anni e frequentavo la quarta superiore, in un Istituto Tecnico.
La scuola era fortemente politicizzata, uno zoccolo duro di extraparlamentarismo di sinistra che raccoglieva buona parte degli studenti e degli insegnanti.
Dal giorno del rapimento di Aldo Moro la scuola era in assemblea permanente. Ogni mattina venivano letti e discussi i giornali, venivano rintuzzati gli attacchi dei fasci, venivano stesi tazebao.
La mia classe era uno dei fulcri dell’attività ed io ero il fulcro della mia classe: secchiona riconosciuta, prima della classe in tutte le materie, membro di Potere Operaio e presidente dell’assemblea degli studenti.
Come molti di noi sapevo di essere su un crinale, in equilibrio precario.
Eravamo contro lo stato, di questo eravamo certi tutti.
Lo stato era il preside ubriacone che ci negava la mensa anche se la scuola era a chilometri dalla città e dal più vicino posto dove mangiare.
Lo stato erano i carabinieri che avevano rinchiuso molti di noi in un pullman, che avevamo bloccato perché si pretendeva di far salire 300 persone dove a malapena ce ne stavano 70, facendoci poi scendere uno alla volta e manganellandoci mentre attraversavamo lo stretto della porta.
Lo stato era il sindaco che prima ci aveva promesso udienza per risolvere i nostri problemi di mensa e trasporto, e poi, una volta raccolti nel cortile del municipio, ci aveva scacciato con gli idranti.
Eravamo contro lo stato, senza dubbio.
Capivamo le ragioni delle Brigate Rosse.
Letti oggi quei volantini sono quasi ridicoli col loro linguaggio pretenzioso da realismo socialita, eppure li capivamo, avevamo gli strumenti linguistici e politici per destrutturarli e ricavarne i messaggi, e i messaggi parlavano di uno stato diverso, di diritti, di dialogo.
Poi era arrivato il rapimento di Aldo Moro.
All’inizio l’avvenimento ci aveva eccitato. L’uomo non era simpatico, con le sue maniere compassate. Era un residuato del passato, legato a doppio filo con quello stato contro cui eravamo.
Col passare dei giorni il fronte unito di approvazione iniziò a mostrare delle crepe.
Qualcuno in quel momento decise di scivolare giù dal crinale, e ci si perse del tutto, qualcuno invece iniziò a porsi dei dubbi.
Poi, dall’analisi dei documenti, si fece strada il sospetto che ormai il principale ostacolo alla liberazione di Moro fosse il suo partito, che approfittava di quella che sembrava a tutti gli effetti una sede vacante per riorganizzarsi senza di lui, facendo avanzare persone al cui confronto l’anziano democristiano sembrava un progressista sfegatato.
E poi c’erano le lettere.
Non ho dubitato, mai, che il loro contenuto fosse quanto di più spontaneo e vicino all’anima di Moro ci potesse essere, in quelle lettere non c’era nulla di forzato, i suoi carcerieri non ci avevano messo mano.
Eppure, per quelle lettere, fu decretato pubblicamente, anche se non ufficialmente, che il prigioniero non era più in grado di intendere e di volere, che era succube dei suoi carcerieri.
Chi di noi dialogava con se stesso, pochi, che a 17 anni è difficile, aveva ormai intuito che la vita di Moro era prossima al punto di non ritorno.
Quella mattina una nostra compagna fu chiamata in presidenza non ricordo per quale motivo, forse una questione di assenze, visto che era incinta.
Dopo pochi minuti tornò in classe sconvolta, urlando con la bocca spalancata, le guance rigate di lacrime. Ci spaventammo, conoscendo il suo stato, e la professoressa di matematica, che mi stava sottoponendo alla solita interrogazione sadica che aveva in palio la concessione alla classe di andarsene in assemblea, iniziò a urlare più forte di lei, per la paura.
Cercammo di calmarle, ma ci accorgemmo che i corridoi rumoreggiavano di grida sempre più forti, di pianti.
Improvvisamente si aprì la porta e la nostra insegnante di lettere del biennio, apparentemente calmissima, ma con la voce rotta e il viso che sembrava una roccia malamente scolpita ci disse di andare il più velocemente possibile in aula magna, che era stato trovato il cadavere di Aldo Moro.
La professoressa di matematica, ripresasi dallo spavento del possibile parto in classe, si alzò inviperita replicando che non ci poteva lasciar andare, che eravamo già in ritardo sui programmi. La collega la zittì con un gelido “vai a farti fottere”.
Uscimmo nel corridoio, lo scalone era già affollato di studenti e insegnanti, e quando arrivammo in aula magna facemmo fatica a entrare.
Io dovetti farmi largo a gomitate per raggiungere il mio posto di presidente.
Qualcuno aveva un radioregistratore, e aveva registrato la trasmissione che aveva dato la notizia.
La riascoltammo in totale silenzio, e poi iniziammo la discussione.
Non ne ricordo i particolari, la mia testa era altrove.
La storia ha incolpato le Brigate Rosse dell’omicidio di Aldo Moro, ma, in un processo equo, io avrei voluto vedere condannati i fiancheggiatori di quell’omicidio, e niente mi toglie dalla testa, per tutto quello che ricordo di quei tempi, che i fiancheggiatori si radunassero sotto lo scudo crociato.
Per quanto riguarda me, come ho già detto, nel corso della discussione in assemblea avevo la testa altrove, e svolsi i miei compiti di presidente e moderatore per puro automatismo.
L’altrove era la mia necessità di scegliere, di capire da che parte del crinale sarebbe continuato il mio futuro dopo quella tragedia.
Scelsi la luce e la non violenza.
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